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Pergamena ci porta alla scoperta della storia del Tenente Gino

NEDO BIANCHI – “IL TENENTE GINO E IL SOLDATO GIOVANNI” – EDIZIONI ETS, PISA, 2007, pp. 127

GROSSETO – In questa nuova domenica di guerra, quando sono abbondantemente trascorsi i primi cento giorni di conflitto e siamo molto lontani da una seria trattativa, sola iniziativa da cui può scaturire una pace duratura, vorrei parlare di un libro di storia locale, che si occupa di un episodio saliente della lotta partigiana in Maremma. Si tratta di “un insolito saggio di storia che si legge come un breve racconto”. Così è scritto onestamente nella quarta di copertina e il libro mantiene il suo impegno. L’autore è un insegnante di Storia dell’arte, nativo di Murci, quindi personalmente legato alla storia del posto.

Il volumetto narra le “biografie di italiani”, come recita il sottotitolo, in particolare due: il sottotenente Luigi Canzanelli e il soldato Giovanni Conti, impropriamente definito il suo attendente. In realtà erano accumunati dalla stessa scelta partigiana, in ragione della quale ebbero la stessa morte per mano della Guardia repubblicana fascista la sera del 7 maggio 1944 ad una curva della strada della Dogana in direzione di Scansano presso il cimitero di Murci. L’episodio viene dettagliatamente ricostruito da Bianchi nell’ultimo capitolo del libro, “La sera del 7 maggio 1944”, che riporta un’ampia serie di testimonianze scritte e orali, compresa la ricostruzione dell’incidenza della luce lunare di quella sera, che smentisce la ricostruzione di parte fascista. Questa arriva a mentire spudoratamente, dicendo che nel buio il tenente Gino (nome di battaglia di Luigi Canzanelli) fu riconosciuto perché aveva gli occhiali, che riflettevano la luce della luna (“Luigi Canzanelli non era miope e non ha mai usato occhiali”).

La ricostruzione è fondamentale perché su questa base nessuno ha mai pagato per la morte dei due partigiani: il processo che si tenne contro i gerarchi fascisti per gli eccidi di cui furono responsabili in provincia di Grosseto (Maiano Lavacchio, il Frassine e Murci) nell’immediato dopoguerra ricostruì la vicenda come uno scontro armato. Nedo Bianchi riconosce che la sentenza fu “tecnicamente corretta, in quanto tesa a mettere in ordine logico i fatti e solamente quelli. Si parla di incontro imprevisto, improvviso e immediato sbandamento delle due fazioni nel quale è impossibile accertare chi ha sparato per primo e chi ha risposto invece per legittima difesa”. In realtà la ricostruzione dell’autore dimostra che i fascisti ebbero il tempo di appostarsi e di sorprendere i partigiani, che a conoscenza di un grosso rastrellamento in corso stavano lasciando il loro campo di Murci in direzione di Scansano con l’idea di anticipare i fascisti, che invece fecero prima. Non vi sono testimonianze dirette per decidere se si trattò del caso a favorire i fascisti o se essi furono indirizzati da una delazione, come vuole la tradizione popolare.

Meraviglia nel “lealismo” dell’autore la sottovalutazione che si trattava di un rastrellamento e che questo, insieme alla collaborazione con l’esercito tedesco occupante, era considerato un reato ai sensi della legge del nuovo stato italiano (cfr. N. Capitini Maccabruni, “La Maremma contro il nazi-fascismo”, 1985). Egli si limita a citare l’opinione politica corretta di un grande storico della Resistenza, Claudio Pavone (“Una guerra civile, 1943-1945”, 1991), per il quale toccava agli “antifascisti muoversi prima (a sparare prima) dei fascisti … provare con le armi che ci sono degli italiani pronti a battersi” per la democrazia. Ciò dimostra come sia difficile trovare “la verità storica” nell’ambito di una memoria divisa come è quella che ha portato alla sanguinosa guerra civile e al passaggio dalla dittatura fascista alla democrazia. Sicuro è che alle prime raffiche a sorpresa Giovanni morì sul colpo e il tenente Gino fu ferito ad un gamba. Da terra continuò a sparare per coprire la ritirata dei compagni da lui ordinata. Venne ucciso. I fascisti con la loro consueta barbarie infierirono sui corpi già a terra come testimonia il parroco di Murci, Don Tista, che con due donne ricompose i corpi.

Credo che il lettore interessato troverà motivo di attenzione nelle pagine di Nedo Bianchi.
I capitoli precedenti sono molto interessanti non solo per la ricostruzione del contesto sociale, economico e politico dei fatti, ma soprattutto per la ricostruzione della personalità dei due protagonisti e del loro legame. Ne emerge una figura a tutto tondo di due giovani: la sera della loro uccisione il tenente Gino non aveva ancora compiuto 23 anni e Giovanni Conti ne aveva compiuti da poco 21. Venivano da due ambienti molto diversi: Canzanelli era di estrazione borghese, nato in Egitto dove il padre era giudice dei tribunali misti ivi esistenti, che amministravano la giustizia per i vari gruppi etnici, era stato educato in un ambiente cosmopolita fuori dall’indottrinamento fascista, la madre era insegnante alla scuola italiana e Luigi parlava 4 lingue (italiano, tedesco, francese e arabo); Conti veniva da una poverissima famiglia contadina di Montemerano e, soldato nell’esercito regio, dopo l’8 settembre del 1943 era tornato a casa. Nel lavoro che il tenente Gino fece insieme al suo amico, il sottotenente Antonio Lucchini, per costruire la banda partigiana, sembra che reclutò il giovane timido Giovanni e ne fece un partigiano. Quindi tra loro non c’era alcun rapporto militare, per questo è improprio parlare di Giovanni come attendente di Canzanelli. Essi erano accomunati dalla stessa scelta partigiana.

La parte interessante del libro è la descrizione del lavoro “pedagogico” fatto dal tenente Gino per costruire una banda partigiana a partire dalla comunità stessa dove si era venuto a trovare per caso nel tentativo di ricongiungersi con l’esercito regio a cui apparteneva sul fronte di Cassino per mantenere fede al giuramento al re. Analogamente è interessante dal ricostruzione delle azioni della banda guidata dal tenente Gino nella zona di Murci, una vera spina nel fianco dei fascisti, fatto di sortite improvvise e rapidissime, una vera guerriglia, che ha determinato la “leggenda” dell’imprendibile tenente Gino, che in Maremma dura ancora. Alla leggenda ha contribuito il rigore morale del tenente Gino, egli non ha mai giustiziato nessun nemico. Ne ho avuto testimonianza diretta da uno dei suoi uomini recentemente scomparso, il partigiano Aroldo Colombini, che è stato ospite del Progetto “A scuola di Costituzione”, che la sezione ANPI “Elvio Palazzoli” tiene tutti gli anni nelle scuole superiori e medie di Grosseto.

Il libro dedica una particolare attenzione al ruolo della componente femminile della Resistenza, in particolare alla figura della giovanissima Licia Bianchini, recentemente scomparsa, che fa da base “postale” della banda partigiana per cui fu anche arrestata e brutalizzata. Bianchi, però, con un certo pudore non concede nulla alla tradizione orale che vuole che Licia fosse la “fidanzatina” del tenente. L’unica notizia, che Bianchi riporta, è quella del suo matrimonio con il tenente Lucchini nell’immediato dopoguerra.

La storia è un nitido esempio dell’amore partigiano per la libertà della Patria, portato allo sfascio dal regime fascista, e dell’unità politica e sociale della Resistenza, che unificò militari e civili, uomini e donne, persone provenienti da classi, culture e appartenenza politiche diverse. Questo spiega perché fu possibile produrre in tempi difficili di guerra fredda La nostra Carta Costituzionale.

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