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Con Pergamena scopriamo “La tregua” di Primo Levi

Pergamena

PRIMO LEVI
“LA TREGUA”
MONDADORI, MILANO, (1963) 1986, pp. 263

Continuiamo ad occuparci di Levi on questi giorni in cui la memoria martella sull’Olocausto perché non venga dimenticato perché non possa ripetersi. Il libro può essere considerato il sequel, la continuazione di “Se questo è un uomo”, anche se modi e ritmi sono completamente diversi e apparentemente opposti, tanto oppressivo il primo, centrato sull’esperienza di un anno di vita nel lager di Aushwitz-Monowitz, quanto liberatorio il secondo che racconta i mesi del ritorno di Levi dalla liberazione dal lager ad opera dell’Armata Rossa (27 gennaio 1945) al ritorno a casa, a Torino il 18 ottobre 1945. E’ il racconto di un viaggio lungo 1500 chilometri attraverso la Polonia, la Russia, la Romania, l’Ungheria, l’Austria, la Germania fino all’Italia.

C’è anche una cartina ferroviaria, che indica la traccia del percorso, di cui Levi ci dice aveva conservato una nota scritta. E’ su questa traccia che procede il racconto di Levi. I primi due capitoli sono scritti a ridosso della stesura di “Se questo è un uomo” nel 1947-48, gli altri 15 nel 1961-62. La continuità tra le due opere è stata segnalata dalla critica anche nelle poesie che sono in esergo ai due volumi. Il testo che apre “La tregua”, di cui condivide il titolo, è stato scritto il giorno dopo di “Shemà”, il testo che apre l’opera prima. I due testi poetici si somigliano anche formalmente, entrambi constano di due momenti, strettamente connessi tra loro, quello negativo del lager e quello positivo del ritorno a casa. La tregua è esattamente quello che sta nel mezzo.

Ce lo ha spiegato lo stesso Levi, indicando il significato dell’ultima pagina del romanzo, in cui viene narrato un suo sogno ricorrente in cui egli è a tavola, ha mangiato e raccontato la sua avventura, ma le mura crollano e lui è tornato nel nulla del lager. «Questa pagina, che chiude il libro su una nota inaspettatamente grave, chiarisce il senso della poesia posta in epigrafe, e ad un tempo giustifica il titolo. Nel sogno, il Lager si dilata ad un significato universale, è divenuto il simbolo della condizione umana stessa e si identifica con la morte, a cui nessuno si sottrae. Esistono remissioni, “tregue”, come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti dal “comando dell’alba”, temuto ma non inatteso, dalla voce straniera (“Wstawać” significa “Alzarsi”, in polacco) che pure tutti intendono e a cui obbediscono.

Questa voce comanda, anzi invita alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita, è implicita nel destino umano, inevitabile, irresistibile; allo stesso modo nessuno avrebbe potuto pensare di opporsi al comando del risveglio, nelle gelide albe di Auschwitz». Levi propone giustamente una esegesi universale, antropologica, ma ve ne è anche una “storica”. Nel testo del libro, che racconta con piglio ironico e a tratti anche allegro (dato che è la storia di un giovane di 24 anni il quale ha scampato la morte certa del lager) la voglia di tornare a casa e di tornare alla vita, cose che non sempre coincidono (nostalgica la prima, quasi spensierata la seconda), la tregua è citata letteralmente una volta sola verso la fine del libro: “la breve tregua” è la libertà di cucinare un’oca concessa da due soldatesse russe armate e “legnose” in cambio di un rapido coito ad opera di due deportati, che “si sacrificano per il bene comune”.

In realtà la struttura del libro non è lineare, per quanto la narrazione è il seguito delle alterne vicende di un viaggio, di una stazione dietro l’altra, bensì circolare, compresa tra un episodio iniziale e il sogno finale, che sono isomorfi. In una sosta vicino a Cracovia a Trezebinia. Levi sente il bisogno di raccontare (“Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile”) e lo fa ad un gruppo di persone grazie alla gentilezza di un avvocato colto e sensibile che traduce il suo racconto. Lo presenta, però, come prigioniero “politico”, non come ebreo. Questo lo smonta (“Mi ritrovai ad un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana”), gli interlocutori lo capiscono e se ne vanno alla spicciolata. Levi rimane solo, chiede all’avvocato perché ed ottiene la stessa risposta che gli ha dato “il greco”, il duro commerciante Mordo, che lo accompagna nel viaggio: “la guerra non finisce mai”. E’ facile rintracciare lo stesso percorso e la solitudine di Lei nel sogno finale. La vita può dare momenti di tregua, ma il destino è tragico, mortale. Secondo me è tragico anche in senso storico: “ciò che è stato può tornare” (è il messaggio del testamento spirituale di Levi ne “I sommersi e i salvati”, 1986), la perversione dell’umanità che lascia sola la diversità e che ha lasciato solo Levi, è costantemente in agguato.

Ancora una volta il significato secondo del libro di Levi è in un’allegoria moderna della vita umana, che rappresentata come una tregua con un destino inevitabilmente tragico, sospesa tra due nulla prima e dopo, un’allegoria che come abbiamo visto non disprezza l’uso del simbolo all’interno di una costruzione metaforica complessa che dura quanto tutto ili libro. Essa coincide con un ritorno massivo del rimosso inconscio, attestato nel sogno ricorrente del ritorno del lager, inteso come il nulla mortale, l’annullamento totale, la cui paura alberga dentro ciascuno di noi con le sue fantasie concentrazionarie e persecutorie (il lager, l’inferno, l’ingiustizia o la condanna perenne).

Due ultime considerazioni: la prima sullo stile nitido, che si alimenta anche in questo caso alla lezione dei classici come nell’opera prima; la seconda circa la simpatia umana che Levi non nasconde per i russi, dipinti come confusionari, poco burocratici, pronti alla baldoria e all’allegria, all’opposto della precisione disumana dei tedeschi che emerge in “Se questo è un uomo”, due tratti connaturati alle due diverse culture, i primi hanno prodotto una rivoluzione (dico io) finita male, ma gravida di speranze per il futuro, gli altri hanno prodotto non “il male assoluto” (secondo un vieto simbolo che allude ad un apice di dolore irripetibile), ma una plumbea dittatura, forse la peggiore della storia sin qui conosciuta.

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