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Pergamena alla scoperta de “La strada di San Giovanni” di Italo Calvino

Pergamena

GROSSETO – Calvino era poco incline all’autobiografico. Nel 1964 scrivendo a Germana Pescio Bottini dice: “Mi chieda pure quel che vuol sapere, e glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità”. Questo racconto, però, getta uno squarcio sul rapporto tra Calvino e il padre (e indirettamente anche con la madre). Il racconto narra della strada che il padre, agronomo di Sanremo che aveva girato il mondo per lavoro, faceva con i figli (Italo e il fratello) per andare nel podere di famiglia e tornarne carico di frutta e verdura. I figli, ed Italo in particolare, sono disinteressati al podere, denominato “San Giovanni”. Qui sta il conflitto tra Italo e il padre: si presenta in termini, che vanno dal generale al particolare fin dall’incipit:”La spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra”), che stava a metà collina tra il centro abitato della cittadina ligure e il podere. La strada è tutta in salita. Per il padre “il mondo era di là in su”, la parte cittadina “era solo un’appendice”, per Calvino “tutto il contrario”. E’ la città ad essere il mondo: “la città, uno spiraglio di tutte le città possibili”, sembra un’allusione tutta visiva a “Le città invisibili” (1972), al mondo sconosciuto. Italo e il padre non vanno insieme: lo scrittore e il fratello eseguono un dovere penoso e arrivano tardi. Ritornano carichi, perché, non essendo motivati come il padre a coltivare la terra, servono solo da braccia per trasportare le cose. Pur essendo “entrambi di indole verbosa, posseduti da un mare di parole, insieme restavamo muti”.

Per il padre “le parole dovevano servire da conferma delle cose, e da segno del possesso; per me erano previsioni di cose intraviste appena” (si noti ancora il passaggio visivo incerto). Viene da chiedersi dove sta la ragione del conflitto. Ne ho trovate due nel racconto: la prima classicamente edipica, poco prima. “Le nostre strade divergevano … ma anch’io, cos’era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d’un’altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l’ombra d’una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa”.

I significati libidici sono evidenti. La strada è la stessa del padre, difficile nel possesso come la terra di San Giovanni così difficile da raggiungere e da far fruttare. Più avanti nel racconto c’è un accenno alla madre fredda e remota: “senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva “. Il podere per il padre “non essendo tutto il mondo ma solo un angolo del mondo assediato dal resto, sarebbe stato sempre la sua disperazione” (p. 21). L’agronomo per il figlio istituisce un rapporto con la natura “di lotta, di dominio: darle addosso, modificarla, forzarla, ma sentendola sotto viva e intera”.

Non è una metafora di un rapporto sessuale con una donna difficile da possedere? La strada scelta da Calvino, quella della scrittura, non è, poi, radicalmente diversa. “Stavo anch’io cercando un rapporto, forse più fortunato di quello di mio padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo significato a tutto, e d’un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e possedibile e perfetta, ogni cosa di quel mondo ormai perduto”. Ancora una volta vale il rimando a Roland Barthes: chi scrive continua a giocare con il corpo della madre.

La seconda ragione, che ho trovata (più complessa, ma connessa), è quella – a me vicina – e per certi versi epica della continuità, che si rompe inevitabilmente con la modernità. Il padre, ex-anarchico e socialista riformista, cerca nel rapporto, che mette il proprio sapere al servizio dei contadini, “il segno che in questo suo mondo fosse possibile una convivenza civile, mossa da una passione di miglioramento, guidata da una ragione naturale; ma subito tornavano a stringerlo da vicino le prove di come tutto fosse insidiato e precario …”. Scrive Calvino: “uno di questi segni ero io, il mio appartenere all’altra parte del mondo, metropolitana e nemica, era il dolore che questa sua ideale civiltà di San Giovanni non la si poteva fondare con i suoi figli e fosse per ciò senza futuro”. Solo alla fine del racconto c’è una sorta di disperata riconciliazione, legata a quanto l’autore scrive. Egli immagina di essere ancora chiamato dalla voce del padre a fare i lavori della campagna, “ma non conosco la mia terra, mi perdo. (Ora sì, dall’alto degli anni, vedo … ogni sentiero, ora potrei indicare la strada a me che corro tra i filari, ma è tardi, ormai tutti se ne sono andati)”. L’immagine dall’alto richiama la leggerezza delle “Lezioni americane”, uscite postume nel 1988.

In un tentativo di spiegare i rapporti tra Calvino e la psicoanalisi in una conferenza del Centro Torinese di Psicoanalisi l’analista Tito Baldini ha dato una lettura lacaniana a partire dalla presenza delle opere di Lacan nella libreria di Calvino. Pensando che del linguaggio possediamo solo i significanti (le parole o peggio i fonemi), mentre i significati ci sfuggono sprofondati nell’inconscio. Questo racconto per me in parte contraddice questa interpretazione: i significati ci sono, “intravisti” da una porta socchiusa, ma ci sono e in fondo al racconto sembrano anche raggiungibili per Calvino. E’ vero la cura dell’autore per il linguaggio per lo stile nitido e leggero sembra alludere a una posizione “nominalista” (“nuda nomina tenemus”), ma anche qui Calvino rimane disperatamente partigiano coe lo fu durante la Resistenza.

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