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La rubrica Pergamena ci racconta “La peste” di Camus

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ALBERT CAMUS
“LA PESTE”
in “OPERE. ROMANZI, RACCONTI, SAGGI”, BOMPIANI, MILANO, (1947) 2003, pp. 369-615

Allora siamo alla quinta ondata, anche se la stanno spacciando per la quarta, e si sta riparlando di chiusure, lockdown  e zone gialle, che si volevano superate. Seguendo il filo del contagio ho ripreso questo vecchio libro, dove si trovano molte cose interessanti rispetto all’oggi. E’ come se gli umani si rifiutassero di imparare: è proprio il caso di dirlo con l’apostolo Giovanni, che Leopardi cita in esergo a “La ginestra”: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” (Giovanni, III, 19)

Nelle pagine potenti de “La peste” (1947) troviamo tutto ciò che accade nella pandemia odierna, dalla non preveggenza degli umani e dalla cecità a vedere i prodromi del contagio, all’incertezza nel prendere le decisioni fino alla progressiva indifferenza verso la morte. Ci sono gli ospedali provvisori, l’isolamento domestico e le mascherine. Ci sono le speranze riposte nei “sieri” e le resistenza a fidarsi. C’è persino l’ improvvido slogan “tutto andrà bene” della prima ondata, che egoisticamente non tiene conto che a chi muore non va bene per niente.

Il libro immagina una epidemia di peste nella città algerina di Orano, dove Camus aveva vissuto, e rappresenta la seconda fase della sua opera, che egli definì “il positivo” nel discorso che fece nel 1957 all’atto di ricevere il Nobel. Sarebbe la reazione all’insensatezza della vita, raccontata in negativo nel romanzo Lo straniero (1940) e nel saggio Il mito di Sisifo (1941). E’ la ribellione alla mancanza di senso del saggio L’uomo in rivolta (1951). In mezzo c’è l’esperienza della guerra mondiale e il progressivo impegno politico dell’autore, orientato a idee di sinistra dall’epoca degli studi universitari fino al lavoro nella redazione del giornale clandestino “Combat” dell’omonimo gruppo della Resistenza Francese.

La critica vede nel romanzo la metafora dell’avvento e della diffusione del nazismo, paragonato alla peste. L’onnisciente enciclopedia elettronica tenta addirittura una corrispondenza punto per punto tra i personaggi del romanzo e quelli della pestilenza nazista. D’altro canto la descrizione della peste è molto realista dalla moria dei topi, con cui il romanzo comincia, fino alla descrizione del suo infuriare, agli ospedali provvisori e al tentativo della cura con il “siero” estratto dal sangue dei guariti. Sicuramente Camus si è ben documentato sullo svolgimento di un’epidemia. Dunque, come nel caso di Cecità di Saramago, La peste è un’allegoria moderna con tutto il suo realismo.

La voce narrante si presenta come l’estensore di una “cronaca” il più possibile piana e neutra di chi ha vissuto la pestilenza ad Orano; solo alla fine del romanzo rivelerà la propria identità, che è lo stesso protagonista del romanzo, un medico, Bernard Rieux.  È uno dei principali combattenti del flagello, insieme a quello che diventerà il suo amico, Tarrou, l’organizzatore delle “squadre sanitarie”, i volontari che coadiuvano il personale sanitario. Poi c’è il giovane giornalista Rambert, bloccato ad Orano casualmente, quando per la pestilenza vengono chiuse la porte della città per isolare il contagio. E’ ossessionato dal desiderio di raggiungere la donna amata in Francia. Dopo tanti tentativi falliti, quando si presenta l’occasione buona, si rifiuta di partire per contribuire alle “squadre” volontarie. Non avrebbe concepito la propria felicità individuale alle spalle della morte di molti. Nell’intreccio l’autore costruisce i motivi etici, che animano l’intera storia. Sappiamo dell’adesione di Camus alla filosofia esistenzialista, di cui i romanzi sono una sorta di incarnazione nella reale vicenda umana.

Da questo punto di vista vi sono due punti salienti, che farebbero la grandezza del romanzo da soli, come il gioiello della leggenda del Grande Inquisitore ne “I fratelli Karamazov”. Il primo è l’incontro-scontro tra Rieux con il padre gesuita, Paneloux, che nella sua prima predica definisce la pestilenza un flagello, mandato da Dio per punire gli uomini. Rieux gli contesta lo “scandalo” del dolore, dopo che insieme hanno assistito a “l’agonia di un innocente”, un bambino morto di peste. Il gesuita lo ammetterà nella sua seconda predica, prima di morire di peste a sua volta.  Che c’entrano i bambini innocenti nella punizione divina? E’ la stessa domanda che Saramago rivolge a Dio in Caino a proposito dei bambini di Sodoma, innocenti chiamati a scontare i peccati degli adulti (2009).

L’altro punto è la confessione della propria scelta di vita che Tarrou fa a Rieux, spiegando il suo impegno contro la peste: è la storia della rivolta al padre, un giudice che ottiene la pena capitale per un ignaro condannato. Tarrou non vuole essere “appestato”, cioè non vuole essere complice di nulla che porti alla morte di un altro essere umano. Questa morte è “la peste”. Tarrou vuol essere “santo”. La risposta del medico, che combatte la peste pur con i quotidiani fallimenti (la versione agonistica di Sisifo, che per Camus dobbiamo immaginarci felice di rotolare in eterno il proprio masso,) è uno dei punti più alti del romanzo: “io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo mi interessa”. E’ la verità limitata dell’esistenza umana.

Un altro tratto decisivo, incarnato dal Rambert, è il punto dolente della peste, ciò che tutti noi stiamo vivendo, è il motivo della “separazione” dall’altro, che caratterizza l’isolamento per il contagio e che ripetutamente Camus fa coincidere con “l’esilio”. La separazione dall’altro amato scivola nell’indifferenza, nella perdita della memoria, nella monotonia, nel distacco dall’unica realtà meritevole di essere vissuta, l’amore. Camus declina nel racconto tutti i passaggi. Secondo Rieux “l’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa”. La sera è l’ora più “crudele per il prigioniero o l’esiliato che non ha da esaminare se non il vuoto”.

La peste è proprio l’allegoria dell’esilio in cui l’uomo moderno vive e con cui, se vuole essere uomo tra gli uomini, si confronta tutti i giorni. Rieux sa che “tutti gli uomini che non possono essere santi e, rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere medici”, cioè richiama la pietà millenaria per la sofferenza umana. Il romanzo chiude dicendo che “il bacillo della peste non muore né scompare mai”, dorme finché “per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”. Allora il significato secondo del romanzo, la sua morale, è che occorre chiedersi in cosa gli umani sono corresponsabili della loro sventura, come il contagio di oggi, che nel romanzo è il potente emergere dell’inconscio, della parte più buia di noi stessi.

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