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Con Pergamena alla scoperta del virus che caratterizza il libro di Saramago “Cecità”

Pergamena

JOSE’ SARAMAGO
“CECITA'”
EINAUDI, TORINO, (1995) 1996, pp. 315

È un romanzo molto citato oggi. Scritto nello stile tipico di Saramago, è un’allegoria del nostro presente, attualissimo in questo momento del contagio. L’Autore lo citò nel discorso all’atto della consegna del Premio Nobel (1998): la nostra società è cieca perché ha smarrito la solidarietà. Il titolo originale del romanzo in portoghese è “Ensaio sobre a Cingueira”, cioè “Saggio sopra la cecità” (un titolo anche questo tipico di Saramago), che rimanda all’idea che la letteratura ha un valore conoscitivo, se vogliamo scientifico. E’ un’allegoria perché da una storia raccontata con grande realismo si ricava un significato generale utile per l’oggi.

In una città, che non viene mai nominata, si diffonde con la rapidità di un contagio infettivo “il mal bianco”, cioè una cecità che si caratterizza per un biancore latteo totale. A dire: è l’estrema evidenza del nostro mondo visivo che ci rende ciechi. Il primo gruppo di contagiati, che sono tutti i pazienti in sala d’attesa dall’oculista, a cui il “primo cieco” viene condotto dalla moglie in visita, viene messo in quarantena guarda caso in un ex-manicomio abbandonato. Anche qui come nel racconto di Poe sulla peste rossa e prima ancora nella villa sui colli fiorentini del Decamerone, abbiamo un “claustrum”, un luogo chiuso in cui la ragione cerca di confinare l’irrazionale, la follia, ciò che altera il normale svolgersi della vita quotidiana, cercando di proteggersi dal contagio in un continuo capovolgimento tra dentro e fuori.

Non sapremo mai i nomi dei personaggi, che vengono indicati in base ad una loro caratteristica (l’oculista, la moglie dell’oculista, il primo cieco, sua moglie, il ragazzino strabico, la ragazza dagli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera sull’occhio). Nel manicomio, sorvegliato dall’esercito, che garantisce solo l’approvvigionamento quotidiano dei viveri, si riproducono tutte le dinamiche di potere della società. Ciò accadeva regolarmente nei manicomi così come li abbiamo conosciuti.

Gli internati arrivano a trecento e sono abbandonati a se stessi in condizioni igieniche bestiali: è quello che August Stridberg (1898) avrebbe definito un “inferno stercorario” con escrementi da ogni parte. Saramago ricorda i teologi, per i quali “la maggior difficoltà per riuscire a vivere decentemente all’inferno è l’odore che c’è”. Un gruppo di internati, “i ciechi oppressori” (p. 155), armati di una pistola con cui il loro capo spara “alla cieca”, si impadroniscono del cibo e lo raziona a tutti gli altri prima in cambio di denaro e averi e poi in cambio delle donne, le quali vengono sottoposte ad ogni tipo di sevizie sessuali. La moglie dell’oculista è non soggetta al contagio, l’unica a poter vedere, è la testimone dello scempio, rappresenta l’unica possibilità di coscienza critica. Infatti si ribella, con un paio di forbici scanna il capo di ciechi oppressori, mentre abusa di lei, e costruirà faticosamente con il primo gruppo dei contagiati una comunità solidale.

Ad un certo punto la situazione si rovescia come vuole la saggezza popolare per cui la follia è fuori e non solo dentro: la situazione dentro il manicomio diventa quella dell’intera città e dell’intero paese, “il mal bianco” colpisce tutti, anche il governo. I ciechi si riversano per le strade, anch’esse pieni di immondizie, con gruppi di ciechi che si aggirano cercando cibo. Sarà la moglie dell’oculista, con l’aiuto della ragazza dagli occhiali scuri (che guarda caso era una prostituta con un grande cuore), a ricostruire a casa propria con il primo gruppo di ciechi una piccola comunità solidale che ella sfama. Cercherà il cibo sotto una pioggia torrenziale, che purifica i corpi e la città (ricorda la pioggia che pone fine alla peste ne “I promessi sposi” e il biblico diluvio universale come strumento di purificazione).

Qui Saramago pone una relazione tra la femminilità e la libertà: “aveva i seni scoperti, e su di essi, purificatrice … scorreva l’acqua del cielo, non era la libertà che guidava il popolo …” (è esplicito il riferimento al quadro di Delacroix). E’ il richiamo ad una delle classiche iconografie della libertà. Le donne solo le uniche a salvare la dignità umana in questo romanzo. In effetti in quello che è considerato il sequel di “Cecità”, il “Saggio sulla lucidità” (2004), sarà proprio la moglie dell’oculista ad essere indicata come la leader della rivolta politica delle schede bianche. Il romanzo ha un apparente lieto fine: l’epidemia finisce e tutti riacquistano la vista. La considerazione della moglie dell’oculista nella chiusa del romanzo non è così lieta: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Questa è la morale della storia che riguarda l’intera condizione umana.

Lo stile di Saramago non è facile perché nella fluvialità sovrabbondante della narrazione sabota tutti i riferimenti classici del lettore, che si trova di fronte a pagine fitte, senza paragrafi, con pochi a capo, con solo gli spazi bianchi tra un capitolo all’altro e con dialoghi in cui le varie battute sono distinte solo da virgole. Questo stile chiede un’adesione totale al lettore, che deve seguire i significati del libro lasciandosi trasportare dal fiume del racconto. Almeno è quello che di solito faccio io per arrivare in fondo e godermi la storia.

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