Onorificenze

Medaglia d’onore a Carlo Pantaloni, il santafiorese che rifiutò la Repubblica di Salò e fu deportato in Germania

Carlo Pantaloni

SANTA FIORA – Carlo Pantaloni, cittadino santafiorese, classe 1922, deceduto nel 2005, ha fatto parte di quel folto gruppo di militari italiani che, durante il secondo conflitto mondiale, dopo l’armistizio dell’Italia dell’8 settembre 1943, si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e furono per questo deportati e internati nei campi di concentramento in Germania.

Nel giorno della Memoria, durante una cerimonia che si è svolta in videoconferenza, promossa dall’Isgrec, il prefetto di Grosseto Fabio Marsilio ha consegnato al figlio di Carlo, Claudio Pantaloni, la Medaglia d’onore in memoria del padre, concessa con decreto del presidente della Repubblica ai militari internati italiani (IMI).

“Uomini come il nostro concittadino Carlo Pantaloni –commenta il sindaco di Santa Fiora, Federico Balocchi – ci danno la misura di quanto la democrazia e la libertà siano una straordinaria conquista da difendere ogni giorno. Questa medaglia è il simbolo delle sofferenze subite dai nostri soldati per aver fatto la scelta coraggiosa di dire no al Nazifascismo a prezzo di indicibili sacrifici. Una memoria che è uno straordinario patrimonio storico e di valori da tramandare alle generazioni future.”

“Mio padre scelse di dire no alla dittatura e ad una guerra in cui non si riconosceva – spiega Claudio Pantaloni -preferendo 20 mesi di prigionia, di linciaggi morali e maltrattamenti fisici piuttosto che far parte delle file dell’esercito della Repubblica sociale, al fianco dei tedeschi. Una scelta sofferta, che fu presa con coraggio, pur sapendo di andare incontro ad un destino incerto, fatto di fame, freddo e ingiustizie, con il rischio di non tornare più a casa. E invece a casa tornò nel luglio del 1945, ma non ha mai voluto raccontare niente ai suoi familiari di quell’esperienza. Probabilmente ciò che aveva vissuto doveva essere dimenticato prima possibile.

Sono riuscito a ricostruire comunque questo capitolo drammatico della sua vita, grazie alla testimonianza di Romolo Netti di Seggiano, un ex soldato ancora in vita, che condivise con mio padre la guerra e il campo di concentramento. Il babbo venne richiamato alle armi durante il secondo conflitto mondiale, nel giugno del 1942, aggregato al primo reggimento Granatieri di Roma. Aveva appena 20 anni. Partì dall’aeroporto di Orbetello destinazione Atene, dove rimase dal 29 agosto del 1942 al 14 gennaio del 1943, poi fu trasferito a Patrasso fino alla cattura del 9 settembre 1943, quando i soldati tedeschi, dopo l’armistizio, lo resero prigioniero e lo deportarono nei campi di concentramento, come accadde ad altri 600mila soldati italiani che, come lui, si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò.

Fu trasferito da una città all’altra fino a Brema. Con lui finì anche il suo amico Romolo Netti. Nel campo di concentramento cercavano di aiutarsi l’un l’altro.

Per dare da mangiare a tutti avevano scavato un tunnel che consentiva di superare il reticolato e arrivare ai campi all’esterno, dove i civili conservavano montagne di patate, nascoste tra il fogliame. Questo alimento permetteva loro di accantonare le misere razioni di rancio, costituite da gallette e formaggio secco, per i momenti in cui la fame si faceva insopportabile.

Poche settimane prima che arrivassero gli Alleati, Romolo fu ricoverato in ospedale e lì si separò da mio padre per poi ritrovarlo in Italia. L’arrivo degli Alleati diede inizio alle marce della morte: gli internati venivano spostati dai tedeschi a piedi da un campo di concentramento all’altro, mano a mano che avanzano gli inglesi. I soldati più deboli che non riuscivano a camminare venivano uccisi. Mio padre riuscì a scappare con altri due compagni. Percorsero a piedi la Germania, nascondendosi di continuo per paura delle rappresaglie e nel luglio 1945 riuscirono a tornare in Italia.

Mia zia mi raccontava che babbo fu l’ultimo del paese a rientrare dalla guerra, pensavano che fosse morto, perché dall’Armistizio non avevano avuto più notizie. Quando arrivò a Santa Fiora nel 1945, si udivano dal centro del paese le urla di gioia e i canti: è rientrato Carlo, è rientrato Carlo”, conclude.

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