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Pergamena: Beppe Corlito ci racconta il “Riccardino” di Camilleri

Pergamena

ANDREA CAMILLERI
“RICCARDINO”
SEGUITO DALLA PRIMA STESURA DEL 2005
SELLERIO, PALERMO, pp. 275 + 275

E’ nota la cronaca: nel 2005 a 80 anni Camilleri, presentendo l’avvicinarsi della morte, pensa di disfarsi del suo personaggio più famoso (e ingombrante), il commissario Salvo Montalbano. Allora scrive “l’ultimo romanzo”, in cui è descritta l’ultima indagine e la fine del commissario, non volendo farlo sopravvivere a se stesso, come era accaduto al personaggio Pepe Carvhaho, l’investigatore privato del grande giallista amico di Camilleri, Manuel Vàsquez Montalbàn, in omaggio al quale aveva dato il nome al commissario italiano. Lo deposita presso l’editore Sellerio con l’impegno di pubblicarlo solo postumo. Camilleri non muore e scrive molti altri romanzi della serie, nel 2016 decide di rivedere il romanzo, in particolare la lingua in cui è scritto, che nel frattempo si è evoluta “grazie anche alla fiducia dei … lettori, che … [lo] hanno seguito”. La presente edizione contiene le due versioni con analoga numerazione delle pagine ed è munita di due segnalibro di colore diverso che permette al lettore interessato di far paragoni puntuali, un’idea ingegnosa di cui ringraziare la Sellerio.

È un giallo: la trama non può essere svelata più di tanto per non sottrarre piacere al lettore. Riccadino è il nome della vittima, che viene ucciso con un colpo in pieno volto sotto gli occhi dei suoi tre amici. I quattro giovanotti, apparentemente irreprensibili sotto l’egida del vescovo Partanna, fanno tutto insieme: tre di loro lavorano presso la locale miniera di sale, mentre la vittima è un direttore di banca. Montalbano li denomina subito i quattro “muschitteri”, ma dal primo interrogatorio collettivo si rende conto che hanno qualche oscuro interesse in comune. L’indagine sembra portare nella direzione di un delitto “di corna”, cosa che non convince Montalbano. Nel corso di un colloquio privato con il vescovo Partanna, che è discendente di un altro vescovo preso di peso da una novella di Pirandello (e questa è la prima marca di contesto), di cui è nipote uno dei tre moschettieri, viene richiamato un episodio celebre: quello della foto del giovane che “ferma” il carro armato il giorno dopo la repressione dei moti cinesi di Piazza Tienanmen. Montalbano fa notare che il tank non potrebbe essere fermato se non ci fosse alla sua guida “un soldato invisibile ma esistente”, che disobbedisce agli ordini e non travolge il giovane. Due forme diverse di coraggio. Insomma la verità è diversa dalle apparenze. Questa “doppia verità” è una delle grandi passioni di Camilleri, un tema che riveniamo in molti dei suoi romanzi. Anche in questo caso l’assassinio risponde ad un gioco più complesso, un coacervo di interessi che coinvolge molti interessi locali, in primo luogo la mafia compresa una personalità del governo. All’epoca della prima stesura del libro il governo in carica è il Berlusconi ter, cominciavano a girare le indiscrezioni del coinvolgimento dell’ex-cavaliere e del suo entourage con la mafia, che rimane uno dei “non-detti” della storia italiana, almeno nelle aule dei tribunali, dove essa abitualmente viene ricostruita.

Questa è un’altra marca di contesto, che Camilleri mette tra i piedi del lettore perché rimanga attivo. A questo punto per la prima e l’ultima volta nella serie dei romanzi di Montalbano c’è un colpo di scena: nell’indagine interviene direttamente Camilleri, denominato “l’Autore”, che suggerisce al commissario una soluzione dell’indagine a lui gradita tramite fax. Montalbano risponde che non è per niente d’accordo e che questo allarga tra loro “una crepa esistente già da qualche tempo”. La situazione ha fatto sbizzarrire la critica e i recensori rapporti con Pirandello. A mio avviso, questo Autore-personaggio (presente in uno degli ultimi lavori teatrali di Camilleri, “Conversazione su Tiresia”, 2018) è solo uno dei tanti “doppi” presenti nel romanzo: il “doppio” è il vero tema. Tra i doppi presenti c’è in primo luogo quello tra Montalbano del romanzo (presentato come effettivamente esistente) e quello del personaggio televisivo, ricavato dall’Autore dalle indagini del commissario, tema presente fin dalle prime pagine del libro. Nello stesso fax di risposta è contenuta una spia semantica: “Cominci a fare confusione tra me e lui? e poi vieni a contare a me la minchiata del doppio”. Poi ci sono i doppi significativamente assenti da questo romanzo: sia quello “positivo”, il vice-commissario Mimì Augello, il fimminaro”, sia quello “negativo”, il dottor Pasquano, il medico-legale, cioè la voce critica oggettivante della scienza.

Come mai Camilleri ha questa passione per la questione del doppio? In tutti gli scritti di Camilleri si trova un solo motivo autobiografico, per quanto sarebbe un approccio riduttivo, e comunque alquanto superficiale. Utilizzando le categorie freudiane sappiamo che il doppio, il sosia, fa parte de “Il perturbante” (1919), cioè l’emersione di un non-detto, socialmente represso, solitamente di natura sessuale trasgressiva, ma qui la verità sessuale (il delitto di corna) viene esplicitamente negata oltre che descritta senza veli in vari passaggi. C’è un altro non-detto: quello politico-sociale, la commistione del malaffare con le istituzioni statali. E’ l’altra forma di ritorno del represso, che ha teorizzato sulla scorta dello scritto freudiano su “Il motto di spirito” (1905), Francesco Orlando, uno dei critici letterari più attenti ad una lettura psicoanalitica della letteratura. E’ questo piacere, che riemerge nel gioco degli specchi, in cui Camilleri è maestro, che tiene incatenato il lettore, oltre che la suspense del giallo.

Vi è un altro strumento di attivazione del lettore: l’uso della lingua sperimentale, che Camilleri è stato capace di ricavare dal dialetto siciliano, il vigatese. Non solo, come ha detto altrove Camilleri sulla scorta di Pirandello, il dialetto è la lingua degli affetti, del primitivo e dell’infantile (a proposito del ritorno del represso), ma tiene desta l’attenzione del lettore, che vuole capire anche le sfumature. Se si fa un paragone tra le due stesure del romanzo, quella del 2005 e quella del 2016, si può notare che le varianti sono solo sul versante della lingua e non della trama e la totalità dei cambiamenti va nella direzione di un approfondimento del dialetto. Salvatore Silvano Nigro, curatore del libro, nella sua nota di chiusura, ne ha rilevate tantissime, cosa che corrisponde anche alla mia lettura. Insomma con questo romanzo il lettore non può dormire.

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