L'opinione

#tiromancino – Immigrati: quel che non funziona davvero nell’accoglienza. Ma che nessuno dice

Tiro Mancino

Ancora una volta c’ha dovuto pensare la Corte costituzionale. Dando un altro colpo alla già dubbia credibilità di certa politica. Peccato solo, a questo punto, ci metta sempre troppo tempo a pronunciarsi, la Consulta. Perché visto il livello di buona parte degli eletti dal popolo, converrebbe quasi far governare i saggi togati di piazza del Quirinale. Versione contemporanea del governo degli Ottimati.

Quindi quel grand’uomo del Salvini, coi suoi decreti omonimi, ha calcato per l’ennesima volta il cappello da somaro. Tanto per cambiare sul tema delicato dei diritti civili. Vietare l’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo – ha detto l’organo di garanzia – è incostituzionale «per violazione dell’articolo 3 della Costituzione», che prevede l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Mica lolla.

Non è che ci volesse un acume sovrumano ad arrivarci, a dire il vero. Ma ora, dopo decine di sentenze di giudici civili e amministrativi, abbiamo anche il suggello aureo della presidente Marta Cartabìa. E gli scienziati governativi capitanati dall’esimio guardasigilli Bonafede(?), avranno motivazioni a bizzeffe per riscrivere da capo i colluviali Decreti Salvini: «irragionevoli», «irrazionalità intrinseca», «irragionevole disparità di trattamento» (eufemismi giuridici che stanno per “ad minchiam”).

Insomma scelte politiche vessatorie e lesive dei diritti fondamentali, che nulla hanno a che vedere col controllo del territorio, ma che in compenso ostacolano ingiustificatamente ai richiedenti asilo l’accesso a servizi che vanno loro garantiti. Iscriversi all’anagrafe del Comune in cui si risiede, infatti, significa avere diritto ad un documento di identità, all’assistenza sanitaria ambulatoriale, alla possibilità di aprire un conto in banca, una partita Iva, di avere un contratto di lavoro. Cioè a dire all’integrazione e all’autodeterminazione.

Tutto a posto quindi? Proprio no, purtroppo. Perché quello ribadito dalla Corte costituzionale è un principio sacrosanto, che però smantella solo un pezzetto della pencolante torre di Babele del sistema di accoglienza vigente in questo terremotato Paese.
Volendo riassumere prendendo a prestito una massima attribuita a Confucio: «dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita». Esattamente ciò che il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo non fa.

Lasciamo perdere gli xenofobi. Per quelli non c’è medicina. Nemmeno la cultura, alla quale sono impermeabili. Come dimostrano i tanti razzisti diplomati e laureati su piazza.

Il pesce comincia a puzzare dalla testa. È noto. E la testa del Golem dell’accoglienza è il sistema giudiziario, che ci mette due o tre anni a stabilire se un richiedente asilo ha diritto o meno a risiedere nel nostro Paese. Poi ci sarebbe anche da ragionare sulla griglia dei criteri per stabilire come si qualifica questo diritto. I colpevoli non sono i giudici in quanto tali, che applicano la legge. Il problema sta proprio nella legge, nelle procedure che danno garanzie formali ma non sostanziali, nell’organizzazione bizantina della macchina della giustizia. Che vessa i richiedenti asilo non meno dei comuni cittadini italiani. Tutto questo dipende genericamente dallo Stato italiano, nelle sue diverse articolazioni. Ma lo Stato siamo Noi.

I due o tre anni che le “risorse” – come con eroico sprezzo del ridicolo i razzisti appellano i richiedenti asilo – trascorrono nei Centri di accoglienza in attesa di una sentenza, sono la conseguenza folle dell’inefficienza della macchina. Un tempo paranoide e dilatato che oltretutto viene completamente dilapidato quanto a occasione di formazione. I giovani profughi, infatti, superata la fase della curiosità per il “nuovo mondo”, precipitano presto in un loop di nullafacenza, alternanza tra depressione e aggressività, frustrazione e indolenza. Tutto questo dipende dal fatto che nei Centri di accoglienza spesso non fanno niente dalla mattina alla sera, vivono isolati dal contesto sociale, solo a contatto fra loro e con gli operatori.

Da cosa dipende, allora, questa situazione avvilente? Da molti fattori: dall’ignavia di sindaci paurosi che preferiscono relegare i Cas in aree periferiche lontane dagli occhi, quando non osteggiano apertamente ogni forma di scambio e integrazione. Dalla grettezza di forze politiche che soffiano sul fuoco per fomentare diffidenza e aggressività sociale per mettere in cascina qualche voto. Dalle Prefetture che supervisionano le procedure con inossidabile approccio burocratico. Da troppi gestori dei Cas che fanno il compitino minimo, e in qualche caso approfittano. Dal fatto che si investono pochi soldi pubblici, e ancor meno risorse umane, per formare le persone e metterle in grado di provare a farsi una vita.

Naturalmente, da un paio d’anni a questa parte, le difficoltà sono state acuite e peggiorate dalle scelte fatte coi famigerati “decreti Salvini”, che fra le tante hanno anche ridotto le risorse: da 32 a 20 euro giornalieri a richiedente asilo. Con la conseguenza che i bandi per individuare i gestori dei Cas sono andati deserti. Oppure “meglio” ancora. Come a Grosseto dove un progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – la punta di diamante della rete di accoglienza – dopo essere stato assegnato, non è stato attuato. In definitiva, anche in questo caso, ogni responsabilità è dello Stato. Ma lo Stato, ancora una volta, siamo Noi.

Poi c’è l’aspetto più scabroso, caratterizzato dalla convivenza di una doppia “verità morale”, uguale e contraria. Quella che i progressisti da salotto non disvelano per convenienza e conformismo, perché sarebbe politicamente scorretto ammettere che è faticoso e ingrato gestire profughi e rifugiati, conflitti e differenze culturali. Oppure all’estremo opposto l’ipocrisia dell’accusa di “buonismo”. Cui di solito ricorrono tanti benpensanti conservatori custodi dei valori tradizionali, che così dissimulano il proprio razzismo. E molto spesso l’impiego al nero di badanti, colf, operai agricoli, muratori e quant’altro.

Entrambi i punti di vista sono il percolato velenoso di un radicato bigottismo culturale, che infiltra il genius loci nazionale. Incapace di fare fino in fondo i conti con la globalizzazione, i nostri storici deficit civici, le inefficienze grottesche del sistema Italia. E con una patetica negligenza nel prendere atto che abbiamo oltretutto un bisogno disperato d’immigrazione. A seguito di un «inverno demografico» che presto avrà esiti traumatici. Tutto questo, peraltro, concorre alla marcescenza dei problemi, assecondando la vocazione nazionale all’autolesionismo compiaciuto e inconsapevole. Con lo stato dell’arte che ancora una volta risalta il fallimento dello Stato. Ma lo Stato siamo noi.

Alla fine del processo il risultato è che la “macchina” produce schiere di disadattati – figli di un approccio biecamente assistenzialista e incapace di responsabilizzare – abbandonati a sé stessi e incapaci di muoversi in contesti ostili, sociali e istituzionali. A parte corsi di lingua italiana troppo brevi, qualche occasione sporadica di formazione e qualche esperienza di servizi civici, infatti, quel che manca totalmente è una formazione alla vita reale. Tipo insegnare cos’è e come si apre un conto corrente. Spiegare cosa sia una caparra per affittare un appartamento. Come si paga una bolletta online o con un Rid sul proprio conto corrente. Come si utilizzano una lavatrice, un ferro da stiro o un fornello. Oppure come funzionano alcuni servizi pubblici – tipo la depurazione delle acque, l’illuminazione pubblica, la raccolta dei rifiuti – che si pagano attraverso le tasse. L’importanza della prevenzione sanitaria e l’accesso ai servizi. Oppure quali sono le regole basilari di comportamento sociale nel “nostro mondo”: perché, ad esempio, se per un giovane africano parlar non guardando negli occhi una persona più anziana è un segno di rispetto, lo stesso identico comportamento è vissuto da un italiano come mancanza di rispetto, e poca trasparenza. Il che alimenta pregiudizi e diffidenze. E si potrebbero fare decine di esempi concreti. Esempi che, per l’ennesima vota, testimoniano l’inadeguatezza dell’organizzazione statale. Ma lo Stato, manco a dirlo, siamo Noi.

Eppure, nonostante questo coacervo d’inefficienze e limiti strutturali. Nonostante la debolezza congenita di un Paese, che proprio per questo riesce ad attirare in prevalenza un’immigrazione poco qualificata, oltretutto avendo masochisticamente rinunciato a gestire i flussi d’immigrazione regolare. Nonostante tutto, la gran parte dei richiedenti asilo e dei rifugiati, riescono a trovare una qualche occupazione e a inserirsi alla bell’e meglio. Occupando i ruoli lavorativi che nessun Italiano vuole fare più da un pezzo.
Forse sarebbe il caso di smetterla con gli alibi. E di fare un catartico «mea culpa» per liberarci dal complesso dell’immigrazione clandestina, lasciandoci alle spalle pietismi e razzismi per puntare sulla comune responsabilità. Anche solo per evitare di commettere gli errori marchiani degli Americani, che a 160 anni dalla guerra di secessione si ritrovano alle prese con fenomeni diffusi di razzismo, enormi tensioni sociali e una crisi d’identità dagli esiti imprevedibili. Ché tanto la “piccola patria” Italia è solo una rappresentazione farsesca della realtà.

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