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Capitani: «I veri rischi da noi non vengono dal Coronavirus ma dalle misure per contrastarlo»

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Capitani: «I veri rischi da noi non vengono dal Coronavirus ma dalle misure per contrastarlo»
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GROSSETO – «I dati sul contagio e sulla malattia, specialmente da noi, non sono così significativi da far pensare a un rischio per il futuro. I veri rischi sono connessi alle soluzioni trovate per contrastare il contagio, che hanno accentuato – e non solo messo in evidenza – la disuguaglianza sociale» afferma don Enzo Capitani direttore della Caritas diocesana e presidente della fondazione “L’Altra Città”.

«I rischi principali, adesso, possono essere almeno di tre tipi:

• peggioramento della quantità e della qualità dell’esclusione delle persone dall’accesso ai diritti fondamentali e alle risorse necessarie per esercitare in modo attivo la cittadinanza;

• deterioramento del capitale sociale e ulteriore declino del volontariato e, in generale, della cultura della solidarietà;

• scelte di investimento che non tengano conto della necessità di ricostruire le reti di comunità».

«Il primo rischio è connesso alla persistente chiusura dei servizi educativi e scolastici, che avrà conseguenze devastanti sulla dispersione scolastica, ma anche sulla salute mentale dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze. Altrettanto grave è la situazione delle donne, che in maggior misura degli uomini saranno costrette a rinunciare ancora a possibilità lavorative, diventando ancora più dipendenti dal contesto familiare» prosegue Capitani.

«Ovviamente anche gli altri soggetti deboli – migranti, senza fissa dimora, vecchi e nuovi poveri, anziani, disabili fisici e psichici – stanno già subendo le conseguenze di questa situazione, come se fossero in prima linea. È in queste fasce infatti che si risente in modo più diretto della riduzione o chiusura dei servizi pubblici».

«Particolarmente grave è il rischio che corrono i senza fissa dimora, dal momento in cui – come è stato in questi mesi – avere una casa in cui rifugiarsi è la condizione necessaria alla sopravvivenza – si legge nella nota -. Questa condizione è stata garantita per motivi di salute pubblica, più che per motivi di inclusione sociale, e il timore è che ritornati a una certa “normalità” il riflettore si spenga di nuovo. Analoga la situazione dei migranti irregolari».

«Il secondo rischio è connesso al clima di sfiducia reciproco che le modalità di risoluzione di questa emergenza sanitaria ed economica hanno contribuito a generare. Questo problema – ha origini culturali e si basa su precise scelte comunicative che hanno privilegiato la tecnica dello “scaricabarile” spostando unicamente sui comportamenti del cittadino la responsabilità della diffusione e quindi incrementando le paure e nel contempo generando nelle persone più giovani la negazione del problema. Tutto questo è aggravato adesso dall’esaltazione dei consumi come unica soluzione alla crisi economica, sembra far diminuire la propensione alla solidarietà nei confronti di coloro che non appartengono al proprio nucleo familiare».

«Il volontariato, come sempre celebrato nella sua capacità di farsi carico delle emergenze dando dei servizi, ma poco considerato sul fronte della capacità di produrre socialità e coesione per il solo fatto di promuovere azione e partecipazione, ha di fatto dovuto sospendere molte attività per due ragioni. La prima è legata ai settori di impegno; il volontariato di matrice culturale, ambientale, civica, educativa è stato sospeso in analogia alle attività economiche e non ha avuto margini di “tolleranza” per ragioni di emergenza come il volontariato prettamente sanitario o, con rarissime eccezioni, quello sociale (tipo la Caritas)».

«La seconda ragione è semplicemente anagrafica; il volontariato è prevalentemente anziano e gli anziani sono rimasti prevalentemente in casa. Pertanto, anche il volontariato è a rischio ripartenza, come molte attività economiche. Il terzo rischio è connesso agli investimenti. Ciò che si legge ed appare in questa fase è una grande attenzione a dare “ristoro” alle attività produttive, in parte anche a quelle sociali, ma non si vedono all’orizzonte e nei piani dei decisori pubblici investimenti nelle infrastrutture sociali, quelle che garantiscono la coesione: l’adeguamento degli spazi pubblici per accogliere in modo sicuro le persone, in primo luogo anziani e bambini; la predisposizione di nuovi spazi per i ragazzi alternativi ai luoghi del “consumo”; l’adeguamento degli spazi per il volontariato sociale, culturale ed educativo, che garantiscano non solo i servizi ma anche luoghi di ritrovo; gli investimenti in capacità progettuale e di sviluppo di competenze sociali e professionali per creare nuovi condizioni e soluzioni non solo di tipo adattativo».

«Da ultimo è da tenere presente anche un’altra evidenza nella ripartenza o ricostruzione. Il modello “post-bellico” non è il più indicato a presentare questo momento. Allora, al termine della guerra, esistevano delle rovine fisiche da ricostruire e la speranza sociale cresceva in proporzione alla ricostruzione fisica dei luoghi; oggi, invece, si assiste ad una devastazione del mondo interiore delle persone, soprattutto anziane, per cui è richiesto un accompagnamento e una vicinanza che solo un ascolto empatico può dare. Il banalizzare e lo sdrammatizzare la paura e la paura della morte in particolare, che le persone portano dentro sé stesse può creare ancora di più sfiducia, chiusura in sé stessi e quindi depressione» conclude.

Barbara Farnetani
12 Giugno 2020 alle 13:07
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