Covid

Coronavirus: così Graziano ha lottato contro il mostro. Ed ha vinto

Graziano Fanti

GROSSETO – «Quando sei lì pensi solo una cosa: devo farcela». Graziano Fanti, 64 anni, si commuove ancora a ripensare ai giorni difficili in cui, in ospedale, lottava contro questo virus che non perdona. «Non puoi parlare, con il casco Cpap, l’unica cosa che puoi fare è pensare, e riesci a pensare solo a quello che ti sta succedendo».

Poi ricorda come tutto è iniziato: «Avevo la febbre a 38, prendevo la tachipirina, mi scendeva e poi mi risaliva. Null’altro se non questo: niente tosse, o mal di gola. Il giorno dopo mi ha chiamato un amico con cui ero stato a cena a inizio marzo: aveva fatto il tampone ed era positivo. Ho avvertito il mio medico che ha allertato subito la Asl. “Non prendere più nulla” mi ha detto “ti mando qualcuno a fare il tampone” – ricorda Graziano -. La mattina dopo seppi di essere positivo. Il mio medico mi disse di misurarmi l’ossigeno: la saturazione era 92-93, i battiti quasi 100».

«Dopo poco è arrivata l’ambulanza: mi è cascato il mondo addosso. Ero al letto, con la febbre, mi sono ritrovato addosso il cappotto e mi hanno fatto salire sulla Croce rossa. Prendi quel che può servire, tutto in fretta. È stato come un vortice in cui mi sono trovato: aver lasciato mia moglie a casa, da sola, senza poter parlare, senza potersi dire quel che stava succedendo».

Con il senno di poi, Graziano ammette che forse, il non poter parlare al telefono con la famiglia, dall’ospedale, è stato meglio: «Sono un emotivo, e non sarebbe stato facile parlare senza commuoversi».

«Sono stato ricoverato nel reparto Covid-2 per 18 giorni. È come essere sulla luna: medici e infermieri hanno due mascherine, a stento si capisce cosa dicono, hanno guanti che arrivano sopra il polso e, per ogni paziente, un altro paio di guanti che mettono al momento. Tutto è rallentato. Si vedono solo gli occhi. In più si va per tentativi. Hanno un protocollo, che seguono, ovviamente, ma non è detto che funzioni, non per tutti almeno».

«Quando prelevano il sangue, con due paia di guanti, non è facile trovare la vena» continua Graziano. «Io avevo le flebo, di cortisone, potassio e antibiotico. Un giorno sì e uno no mi facevano il prelievo per vedere se reagivo alle cure. Poi i raggi. Ma nessuno sapeva dirmi come andava la situazione».

«L’unico che ho riconosciuto dietro le mascherine è stato il dottor Sposato; mi hanno detto che avevo la broncopolmomite, che la saturazione non andava bene, e l’ossigeno nel sangue non era sufficiente – prosegue Graziano -. Così mi hanno messo il casco Cpap per l’ossigeno. In genere si mette per 72 ore, ma le ore passavano e io continuavo a dover tenere il casco. L’ho portato per cinque giorni. Lì è come essere dentro una bolla: tutto è ovattato, attutito. Non puoi parlare, non puoi far nulla. Solo pensare. E ovviamente il pensiero è sempre e solo quello: ce la farò? Ti manca tutto, ma non riesci a pensare ad altro. Non puoi grattarti, senti solo il tuo respiro. Ti viene da piangere, pensi alla morte ma ti dici che devi essere forte».

«Il primo momento bello, dopo tanti giorni, è stato quando mi hanno detto che la terapia stava funzionando e mi hanno tolto il casco. È stato come rinascere. Una lotta dura, contro un mostro invisibile, una battaglia che però ho vinto. Ho perso nove chili ma ce l’ho fatta».

Graziano è tornato a casa, a Roselle, dove vive con la moglie che non sembra aver avuto nulla «Ha avuto una diminuzione dell’olfatto, ma nulla di più. Se anche lei ha avuto il Coronavirus è stato in forma molto lieve». Entrambi devono finire la quarantena, adesso quello che manca a Graziano sono le nipotine, Matilde e Rebecca «Non le vedo dal 9 di marzo» racconta rammaricato. Ma ora che è andato tutto bene ci sarà tempo per rivedersi e riabbracciarsi. Tutti assieme.

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