L'intervista

A tu per tu con Shady Hasbun, lo chef maremmano che ha fatto della passione per la cucina il suo mestiere

Chef Shady Hasbun

MASSA MARITTIMA – Mi giunge un invito per un evento a Massa Marittima da parte di una mia amica, a cui parteciperà un noto chef  di origini maremmane. Oltre a ringraziarla per il pensiero le chiedo se sia possibile intervistarlo. «Certo – mi risponde – ha detto che lo puoi chiamare» Dopo un attimo compongo il numero. Chef Shady Hasbun mi risponde gentile, e prendiamo accordi per l’intervista il giorno successivo. Così mi preparo le domande e, la mattina dopo, eccole qua:

Shady, tua madre è originaria di Massa Marittima, tuo padre è palestinese. Che  cosa senti di avere ereditato dalla Maremma e che cosa dall’Oriente?

Più che di  differenze io parlerei di punti in comune, ricordiamoci che siamo nel Mediterraneo, fondamentalmente il modo di vivere è quello. Diciamo che quando sono nato io, quindi negli anni 80, i tempi erano dilatati sia da una parte che dall’altra. Mi ricordo che a Massa quando venivo dai miei nonni c’erano dei tempi, dei riti che ritrovavo poi anche nelle modalità medio orientali della mia nonna giù a Betlemme.. Quindi sentirsi un po’ coccolati dal tempo, coccolati dalla famiglia, trovarsi sempre insieme nelle occasioni più particolari. Godersi il momento. Ecco, questa è una cosa che ho trovato sia in Maremma a Massa Marittima sia in Palestina a Betlemme. Anche a livello di riti. I miei nonni maremmani li ho vissuti in un momento in cui erano contadini, la mia nonna proveniva dalla campagna della “Venturuccia” ed io giocavo con le galline quando venivo qui in Italia. Quando eravamo in Palestina invece mi divertivo a seguire la  preparazione di cibi legati alle  festività, alle tradizioni. La mia nonna maremmana mi inebriava degli odori degli orto, del pomodoro, dei formaggi freschi che venivano fatti in casa, tipo la ricotta o  il” rovaggiolo”, e soprattutto delle erbe aromatiche, mentre in Medio Oriente quello che mi avvolgeva era il profumo delle  spezie presenti dalla mattina alla sera nei vari piatti, nelle varie preparazioni a partire dal thé, che rappresentava un momento di condivisione importante, o ancora di più nelle varie pietanze tradizionali della cultura palestinese.

Sei nato  a Firenze ma attualmente abiti ad Arezzo. Qual è la cosa che apprezzi di più di queste due città?

La cosa più bella è dire “ Sono nato a Firenze, culla del Rinascimento”. Io ovviamente mi  ricordo pochissimo della mia vita fiorentina perché ci sono stato un anno e mezzo circa, quindi ho pochi ricordi, però Firenze è il cuore della Toscana, è il cuore pulsante dell’Italia ed è  conosciuta in tutto il mondo. I miei si sono conosciuti a Firenze a fine anni ’70, quando entrambi studiavano lì. Devo dire che torarci da grande insieme a loro è stata un’esperienza davvero emozionante. Io poi sono laureato in storia dell’arte, e Firenze incarna uno stile artistico e architettonico unico. E poi che dire di Arezzo? Nel mio girovagare tra Massa Marittima, Grosseto, Pisa, Betlemme, Ramallah, Firenze, Arezzo è la città che mi ha ospitato per più tempo, sono ormai 12 anni che vivo qui. Mi trovo molto bene, e forse Arezzo mi piace così tanto anche perchè mi ricorda la mia Massa Marittima, solo più in grande. Questa città, per niente caotica, conserva ancora per certi aspetti la cultura contadina di un tempo. Ciò che accomuna tutti questi posti, Massa Marittima, Firenze, Pisa dove ho studiato, Grosseto dove ho tutte le mie amicizie, e Arezzo, è la Toscana, che è secondo me il punto forte di questo mio girovagare perchè comunque ha tutto: dalle montagne al mare, dalle grandi città ai piccoli borghi ai centri medievali e, fondamentalmente, ovunque mi giro mi sento a casa.

Una laurea in Scienze del Beni culturali conseguita presso l’università degli studi di Pisa dopo un diploma presso l’istituto tecnico per i servizi turistici di Grosseto. Qual è il filo conduttore che lega queste due scelte di studi?

Grosseto è stata la città dove ho frequentato l’Istituto turistico presso l’istituto Einaudi, a Pisa ho portato a termine i miei studi universitari. Cosa  accomuna queste due scuole? In realtà il punto di contatto è la storia dell’arte. Sono andato al turistico per imparare a gestire meglio le mie conoscenze linguistiche e ho conosciuto altre materie che mi sono piaciute nel corso del tempo e che ho sfruttato anche nel mio lavoro odierno. Ho scelto di andare all’università a Pisa a  studiare storia dell’arte proprio perché ho avuto una professoressa che mi ha fatto innamorare della materia alle superiori. Pensa che inizialmente avrei voluto fare l’alberghiero, ma la mamma mi convinse che non era la scuola giusta. Inizialmente con un po’ di rammarico, decisi di darle retta e ad oggi credo che se non avessi avuto la base culturale molto forte legata appunto a tutti gli studi umanistici e teorici che ho fatto, probabilmente non potrei mischiare la manualità in cucina con tutto quello che riguarda la parte teorica e pratica insieme.

La passione per la cucina ti ha portato verso la professione di chef a tempo pieno. Vuoi raccontarci come sono andate le cose?

Sono vissuto sempre in mezzo al cibo, le mie nonne come ho già detto cucinavano entrambe ed i miei nonni paterni avevano una macelleria. Il mio babbo per un certo periodo ha avuto anche una mensa universitaria in Medio Oriente. Tra le altre cose, uno dei piccoli aneddoti che racconto sempre è che per farmi imparare a scrivere in italiano, quando abitavo a Betlemme, la mia mamma mi faceva scrivere le ricette. Quindi io ingredienti e preparazione li scrivo da quando sono piccolissimo, e quando ho ritrovato quel quaderno qualche anno fa, a parte la tenerezza che mi ha fatto rivederlo, ho iniziato a capire perché sono così metodico nel mio lavoro. Ho capito perché mi piace gestire tutto quello che riguarda la cucina. Considera che a volte chi mi sta intorno, i miei parenti, la mia fidanzata, mi dicono «Ma come fai  a pensare tutto il giorno al cibo?» Perché la mattina vado ad insegnare, quando torno a casa faccio corsi, scrivo ricette per giornali o condivido consulenze per qualche azienda: sono sempre in mezzo al cibo. Qiundi è una passione primordiale che è penetrata direttamente dentro e che mi fa fare quello che faccio oggi.

Si legge di te su internet che hai una grande capacità di unire il “fare” al “sapere”. Che cosa è secondo te il “ fare” e che cosa è il “ sapere”?

“Fare e sapere”… Allora, secondo me non si può fare senza sapere, per cui una delle cose che dico sempre a tutti, anche ai miei alunni a scuola, è che non è possibile fare una ricetta, anche banale, come un minestrone o anche un soffritto di odori, senza avere le basi conoscitive, senza sapere come organizzarsi, senza avere la conoscenza degli utensili e delle attrezzature che si vanno ad utilizzare, senza conoscere gli ingredienti, che è la cosa più importante. È fondamentale fare la ricerca degli ingredienti secondo la stagionalità e soprattutto secondo la provenienza. Spesso la cosa più bella è andare e parlare con chi ha fatto questi prodotti. Io sono legato per esempio a Coldiretti, e questa cosa mi permette, anche grazie al contatto diretto con chi produce quelle cose direttamente sulla terra, o i salumifici o i caseifici, di andarli a conoscere. Non puoi fare qualcosa se non lo conosci alla base. Io lo dico sempre e mi accorgo che ogni cosa che voglio fare devo conoscerla bene altrimenti  mi blocca e non riesco ad andare avanti. Il vero conoscitore, il vero chef è quello che ha studiato tutti i piccoli dettagli per arrivare a fare quello che fa, e non meno importante di tutti è la relazione umana. Io dò una grande importanza al conoscere la persona che ti sta davanti, il gruppo di persone che ti sta davanti che può essere una classe di alunni un gruppo di partecipanti ad un corso e la cosa più importante secondo me è il contatto quotidiano con le persone che incontri ogni giorno che ti parlano di cibo ma anche di loro stessi perché, come dico sempre, il cibo è un modo per creare contatto con le altre persone perché le cose  grandi si creano a tavola e il sapere parte anche dall’incontro con l’altro.

Le tue ospitate televisive sono in continuo crescendo, una per tutte “La prova del cuoco” su Rai Uno. Ci vuoi parlare brevemente di questa esperienza?

Sì, diciamo che “La prova del cuoco” è stato l’apice delle mie presenze nelle televisioni. Sono partito ovviamente come tutti dalle televisioni locali qui ad Arezzo. Una tra tutte Teletruria, che nomino volentieri perché è da lì che è partito tutto, lì ho conosciuto uno dei personaggi più importanti per la  mia carriera non solo televisiva ma anche comunicativa. La partecipazione a “La prova del cuoco” è stata un’esperienza bellissima, molto faticosa perché ovviamente non è stata una passeggiata, per stare dieci minuti in televisione c’è una preparazione enorme dietro. È stato bello perché ho conosciuto tante persone e mi ha dato un’ulteriore spinta ma ovviamente questa spinta mi fa anche un po’ paura perché  la gente ha più aspettative su di te e tu devi crescere e per crescere devi sapere. Grazie anche alla condivisione sui social  delle mie iniziative ho allargato la mia visibilità, ma fondamentalmente non ho cambiato niente nella mia modalità di vita. In questo momento mi sono un po’ fermato perché sono legato alla scuola, ma spero che in futuro ci siano altre occasioni, anche legate a situazioni diverse, dove la mia presenza permetta di portare conoscenza sul cibo. Quello che a me piacerebbe fare, più che le gare di cucina, sarebbe portare conoscenza della tradizione culinaria italiana, toscana ed internazionale al grande pubblico, quindi una cosa molto legata alla cultura.

Con tuo padre hai creato il gruppo musicale Maram Oriental Ensemble. Perché la scelta del palindromo Maram che significa “ meta” … e qual è la tua “ meta”’

Ovviamente, proprio perché è palindroma che si legge da sinistra a destra e da destra a sinistra, ci ha permesso di scegliere un nome che legasse entrambe le culture da qualunque parte tu la legga. Anche la musica è una cosa che mi ha appassionato da quando sono nato, mi ricordo che già a tre anni mi sono messo a suonare le mie percussioni e l’ho sempre fatto a livello di passione. In qualunque cosa che faccio mi piace approfondire ma ho cercato sempre di dare alla musica  una connotazione di divertimento. Si può dire che la mia “meta” nella musica è divertirmi. Il pogetto dei Maram è partito facendo serate a tema di musica e cibo: io ed il mio babbo preparavamo la cena medio orientale e poi facevamo anche la serata musicale. Anche la musica ha avuto quindi la sua parte nel mio percorso formativo culinario. Oltre a suonare col mio babbo ci sono altri quattro maremmani  che via via magari si cambiano. Oltre al gruppo con mio padre, suono anche in un altro gruppo ad Arezzo, i Kabila, sempre alle percussioni. La musica ha un ruolo importante, mi piace perché mi serve spesso per rilassarmi e finire la giornata in bellezza suonando.

Hai vissuto a Massa Marittima per diversi anni, dove sabato prossimo tornerai per partecipare ad un evento. Che cosa provi ogni volta che torni in questa città?

Diciamo che il percorso di sabato prossimo è un coronamento, perché ritornare nella propria città a fare la cosa per cui hai faticato e studiato tanto, divertendoti, è bellissimo. I corsi di cucina sono in questo momento la mia vita, in più insegno alla scuola alberghiera alle Capezzine di Cortona. Sabato a Massa c’è un giochino che abbiamo voluto fare perché dopo avere fatto qualche lezione di cucina con partecipanti, tutte persone massetane, queste persone verranno chiamate a fare una serata finale dove gareggeranno tra di loro. Il gruppo chiamato “Le zie” gareggerà contro l’altro gruppo che si chiama “Le bimbe di Rocco”.  Abbiamo inventato delle ricette insieme e riparliamo di nuovo di condivisione che per me è una cosa fondamentale nella cucina. Che effetto mi fa tornare a Massa? Per me è tornare a casa ovviamente, perché non ho mai lasciato Massa, ci  torno spesso perché il mio babbo abita ancora lì. Dopo la morte della mia mamma, la continuità massetana l’ha avuta il mio babbo perché la mia casa familiare è partita da lì, nella casa in cui abbiamo abitato fin dagli anni 90 e tornarci a fare degli eventi mi rende felice. Abbiamo fatto anche altre cose negli anni, sempre al “Portale delle Arti”, un posto meraviglioso dove prima c’era il Convento delle Clarisse,  io in quel luogo ci  ho fatto le scuole  elementari e ora  ci ritorno in veste di chef o di docente o di formatore, quindi a dare il mio sapere a chi ha piacere di apprenderlo. Naturalmente sono piccoli corsi di conoscenza della cucina con gente eterogenea e quindi quello che cerco di fare è regalare qualche trucco, qualche idea, aprire un po’ le menti cercando di dare dei consigli a chi sa già cucinare e a chi non sa ancora farlo.

Il tuo legame con la Maremma quindi è molto forte…se tu dovessi descriverla in una ricetta di cucina quali ingredienti sceglieresti?

Le ricette maremmane sono molteplici e ce ne sono tante a cui sono legato. Sicuramente il Rovaggiolo è uno di quegli ingredienti che mi ha inebriato. Negli ultimi tempi sono molto soddisfatto anche dell’olio extravergine di oliva della Maremma. Mi viene da pensare ai cereali, e forse ancora di più ai legumi. Quindi se dovessi riassumerla in un piatto unico direi  un piatto molto semplice a base di pochi ingredienti ma genuini, quindi anche una bella bruschetta tostata con un buon olio extravergine di oliva  magari con un leggero sentore di aglio per ricordare un po’ la terra, la genuinità, la semplicità, condita con un  po’ di fagioli semplicemente lessati con un po’ di salvia e rosmarino. Ecco forse questa potrei identificarla come la Maremma e un po’ nelle mie ricette c’è sempre. Anche nei miei piatti elaborati la semplicità finale del piatto è quella che vince su tutte le altre cose anche quando faccio piatti speziati, mediorientali, o piatti più elaborati di cucina fusion o cose del genere.

«La cucina è di per sé scienza» – ha detto Gualtiero Marchesi – sta al cuoco farla diventare arte».

Grazie Shady.

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