L'opinione

#tiromancino – Edilizia bella addormentata. Da svegliare con l’elettroshock

Tiro Mancino

GROSSETO – L’edilizia è la grande malate dell’economia maremmana. Oramai la patologia è cronicizzata, anche se dopo anni di caduta libera il valore aggiunto a prezzi costanti (base 2010) è tornato leggermente a crescere: +10,9% la stima nel 2019 e +5,6% la previsione per quest’anno, secondo l’analisi di scenario della Camera di commercio. Il motivo è che a dieci anni dall’inizio della crisi sistemica che ha investito il Paese, e quindi il nostro territorio, si continua a pensare al comparto edile come se il contesto fosse rimasto immutato.

A chiarire cosa stia alla base della distorsione di prospettiva, ci hanno pensato a settembre l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) col “Rapporto 2019 sul consumo del suolo”, e pochi giorni fa la Corte dei conti. Il succo è che a fronte di una crisi demografica impressionante, con una modifica strutturale della composizione delle famiglie, ed un patrimonio edilizio inutilizzato con percentuali che variano dal 30 al 40 per cento, si continua imperterriti a costruire consumando suolo prezioso. Col risultato che gli immobili rimangono invenduti, i valori immobiliari crollano e nel frattempo il patrimonio esistente deperisce.

Drammatica la situazione del consumo di suolo, scollegato dalla crescita demografica: secondo Ispra ogni abitante italiano ha “sul gobbo” più di 380 metri quadrati di superfici di cemento, asfalto o altri materiali. Valore che lievita di quasi 2 metri quadrati ogni anno, parallelamente al diminuire della popolazione. In pratica si costruiscono 456 metri quadri per ogni abitante in meno.

A Grosseto e provincia le cose non vanno diversamente. Nel capoluogo, ad esempio, dove il vecchio strumento urbanistico dev’essere ancora completato, con lottizzazioni in procinto di partire in zona Oliveto, via Senese e Maremà, solo per citarne alcune, sono state recentemente approvate nuove urbanizzazioni per centinaia di appartamenti lungo via Alberto Sordi e dopo l’ippodromo. Tutti si chiedono chi mai comprerà quelle case. Ma soprattutto è oramai dato per certo che queste nuove edificazioni metteranno in frigo ogni tentativo di recuperare il patrimonio edilizio di ampie porzioni della città, oramai prossimo alla fatiscenza. Occupare nuovo suolo inedificato, infatti, è di gran lunga più conveniente che investire per ristrutturare, demolire e ricostruire o in progetti di rigenerazione urbana. Anche se questo comporta il decadimento di ampie zone urbane, il loro spopolamento e la desertificazione commerciale e dei servizi. Con edifici che in alcune aree cittadine hanno perso anche il 50% del loro valore rispetto a dieci anni fa. Le condizioni inguardabili del centro storico e di molti isolati collocati nella prima fascia intorno alle mura medicee, la dicono lunga sull’imbruttimento e la balcanizzazione della città. Dove le isole di degrado coincidono con quelle dell’insicurezza.

Insomma è un serpente che si morde la coda. Tutto congiura in direzione di un orizzonte di medio periodo davvero poco attraente.

Se questa è la situazione, allora va trovato alla svelta una contromossa. Non solo perché in provincia il comparto edile ha perso sul 2008 il 43,5% delle imprese (oggi 562) e il 51,6% degli addetti (oggi 2.723) – soprattutto nell’artigianato – ma perché una città ha necessariamente tempi lunghi per riorganizzarsi. E prima s’inizia a cambiare verso, meglio è per tutti. Che si tratti di Grosseto, Follonica o Orbetello, poco cambia.

Al netto delle modifiche della disciplina di nuovi istituti giuridici che competono al livello statale e delle positive ma poco impattanti modifiche introdotte dalla Regione Toscana, l’uovo di colombo, si fa per dire, potrebbe essere quello di puntare sulla collaborazione più stretta tra pubblico e privato. Che in quota parte può essere iniziata a sperimentare anche a livello comunale. A cominciare dai nuovi Piani operativi (già Regolamenti urbanistici) che danno attuazione agl’indirizzi generali dei Piani strutturali.

Se infatti demolizioni e ricostruzioni o progetti di rigenerazione urbana diventassero operazioni di interesse pubblico, potrebbero in virtù di questo ottenere regimi fiscali agevolati e finanziamenti ad hoc. Detto in soldoni, bisogna rendere conveniente recuperare la parte già costruita della città, invece di favorire il consumo di suolo inedificato. E bisogna rendere appetibile l’operazione sia per i proprietari di immobili che per le imprese di costruzione. Tutto ciò che negli ultimi tempi non è stato fatto a Grosseto. Ad esempio.

In una prospettiva di cambiamento capovolta, quindi, attribuire l’interesse pubblico a un intervento edilizio, significa ottenere in cambio edifici a basso consumo energetico, dotati di tecnologie domotiche, spazi verdi e relazionali per gli abitanti, servizi a portata di mano. Magari rivedendo anche gli standard urbanistici passando da una logica quantitativa (tot parcheggi ogni tot appartamenti) a una qualitativa (ciclabili e rastrelliere per le biciclette e meno parcheggi).

Insomma lasciare con gli strumenti attuativi degl’indirizzi urbanistici una maggiore libertà nell’interpretare la città e i bisogni di chi ci vive. Che cambiano molto velocemente. Basti pensare alla fine ingloriosa che in pochissimo tempo hanno fatto migliaia di fondi commerciali affacciati sulle strade, a seguito dell’impatto del commercio elettronico che ha falcidiato i negozi. Insomma, all’edilizia servirebbe un vero e proprio elettroshock.

Esempi di quel che si potrebbe fare, in fondo, ce ne sono. Il gruppo internazionale Hines (5 miliardi di investimenti su Milano nei prossimi tre anni), per farne uno, è convinto che il futuro dell’edilizia sia nel recupero dei centri storici, e fra le altre realizzerà 800 appartamenti da affittare, compresivi di due baby sitter ogni 30 abitazioni. Oppure si potrebbe pensare a costruire residenze destinate agli anziani, dotati di appartamenti per gli assistenti alle persone non autosufficienti. Piuttosto che sviluppare formule innovative di cohousing.

Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. Anche perché il rischio sempre incombente, in questi casi, è di premiare la rendita fondiaria e chi ha i mezzi per fare operazioni di natura più finanziaria che di recupero edilizio. Per questo bisognerebbe che i Comuni investissero su personale con competenze specifiche, in grado di gestire operazioni complesse di riqualificazione urbana. E che la collaborazione tra pubblico e privato si basasse sulla condivisione di piani economico-finanziari trasparenti, che definiscano preventivamente le agevolazioni concesse dall’ente pubblico a chi investe per riqualificare fette di città e i margini di utile sui ricavi. Cioè a dire un meccanismo virtuoso che vada oltre la cosiddetta “programmazione urbanistica contrattata”, che spesso ha avuto esiti discutibili.

Tutto questo, naturalmente, partendo dal presupposto logico che la ripresa del comparto edile è funzione derivata della rianimazione più generale dell’economia provinciale. E non il suo presupposto. Perché la ricchezza si genera se lo sviluppo economico si rimette in moto. Cosa della quale non sembra siano in troppi a preoccuparsi.

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