Attualità

Capo Nord: una gavorranese attraverso la Transiberiana. Un viaggio ai confini del mondo

Beatrice Bargiacchi e Margherita

Un viaggio fuori dagli schemi. È quello che racconta la gavorranese Beatrice Bargiacchi in un lungo e particolareggiato resoconto ai confini del mondo. Torna così la nostra rubrica Capo nord, dedicata ai racconti di viaggio dei lettori.

«La scorsa estate, con la mia amica Margherita, ho compiuto un viaggio straordinario: la Transiberiana e la Transmongolica. Abbiamo passato i primi tre giorni a Mosca, poi siamo salite sul treno e abbiamo attraversato la Siberia, fermandoci a visitare tante splendide città, come Ekaterinburg, Novosibirsk, Irkutsk e Ulan Ude, e poi ci siamo soffermate ad ammirare il lago Baikaal, il più profondo del mondo. Abbiamo viaggiato sempre nella sezione più povera e difficile del treno, ossia la terza classe: interi vagoni strabordanti di letti, accatastati l’uno accanto all’altro – prosegue Beatrice, che vive a Bagno di Gavorrano -. Nessun divisorio, nessuna porta né muro. Anziani, bambini, donne, uomini e animali tutti ammassati insieme. Enormi ostelli viaggianti. Lì abbiamo stretto amicizie tanto fugaci quanto straordinarie e intense. Abbiamo imparato a convivere con il senso di spaesamento, dato che sul treno non sapevamo mai che ore fossero né in quale luogo o fuso orario ci trovassimo».

«Una volta terminata la Transiberiana, siamo entrate in Mongolia e vi abbiamo passato un’intera settimana. Abbiamo sbirciato i monaci intenti a pregare nei templi buddhisti e abbiamo attraversato, con una jeep, le enormi distese di colline che si disperdevano a vista d’occhio, alla ricerca dei cavalli selvaggi che abitano quei luoghi. Abbiamo passato la notte ospiti da una famiglia di nomadi, sperdute in una vallata sconfinata che non vedeva la presenza di nessun altro essere umano tranne noi. Abbiamo corso a piedi nudi nel deserto e abbiamo visto con i nostri occhi la Via Lattea, che, grazie alla totale assenza di luci elettriche, squarciava il cielo come una pennellata dorata sopra una tela. Alla fine della settimana abbiamo preso di nuovo il treno e abbiamo affrontato il viaggio sulla Transmongolica: 30 ore attraverso il deserto del Gobi, fino a Pechino».

«Arrivate nella capitale cinese abbiamo trascorso una settimana a visitare tutte le bellezze che quella splendida città ha da offrire. Il Tempio del Cielo, il Palazzo d’Estate, piazza Tienanmen, il Tempio dei Lama e quello di Confucio. Abbiamo mangiato le stelle marine lungo la Snack Street, siamo andate a vedere l’Opera pechinese, perdendoci innumerevoli volte prima di trovare il teatro. In ostello abbiamo conosciuto decine di ragazzi, che ci hanno raccontato le loro storie e le loro vite. Dopo pochi giorni, poi, abbiamo preso un autobus e siamo arrivate al villaggio di Huanghuacheng, che ospita una tratta della Grande Muraglia. Insomma, durante questo viaggio abbiamo visto moltissimi luoghi meravigliosi, ma quello che abbiamo imparato è stato perdersi. Ci siamo perse, poi ritrovate e perse di nuovo. Ancora e ancora. Abbiamo imparato a vivere con poco e ad abbandonare tutto: pregiudizi, paure, tabù, senso dell’orientamento e del tempo. E in quell’assenza di certezze abbiamo scoperto noi stesse come mai nella nostra vita».

Il Viaggio

Mi sembra impossibile di essere davvero qui.
La voce di Margherita cercava di farsi spazio in mezzo al buio, avanzando a tentoni dentro l’enorme oscurità che ci circondava. Mi voltai, stringendo le palpebre a fessura per mettere a fuoco la sua sagoma. E li trovai subito, i suoi occhi blu, grandissimi, che mi scrutavano emozionati e increduli. Brillavano come non mai, dentro quella notte. Ed erano carichi di meraviglia e di domande. Volevano sapere se eravamo veramente lì o se stavamo solo sognando, se davvero eravamo salite su quel treno, settimane prima, e avevamo attraversato tutti quei chilometri, quei fusi orari, quei volti tanto diversi dai nostri, ma oramai così familiari. E se quella vallata in cui eravamo, completamente estranea a qualsiasi essere umano che non fossimo noi, era reale oppure se con un pizzicotto ci saremmo potute svegliare e trovare di nuovo nei nostri letti, a casa. Io deglutii, cercando di trattenere le lacrime: – Anche a me sembra impossibile.

Gtso, la nostra guida locale, stava seduto accanto a noi e sorrideva divertito. Ormai si era abituato al nostro perenne stupore, ma sapeva che di lì a poco sarebbe andato solo ad aumentare: – Look up, girls. “Guardate in alto ragazze”, ci stava dicendo. E noi lo facemmo.

Chiunque abbia mai provato, in vita sua, a godersi il cielo di notte, ha sempre dovuto cercare un luogo isolato, un campo, una collina o qualsiasi posto il più possibile lontano dai centri abitati. Il vero problema però è che, in Occidente, per quanto questo luogo possa essere disperso nel nulla, ci sarà sempre qualche città, nel raggio di pochi chilometri, a spegnere il cosmo con le luci dei suoi lampioni. Ma questo non vale per ogni parte del mondo. E lo capimmo quella sera.

Sopra le nostre teste, nella prateria sconfinata della Mongolia, si era aperto un prato di stelle. Quelle più note, che anche in Italia vedevamo, adesso erano enormi, brucianti, colossali. Ma ce n’erano tante altre piccolissime, mai viste prima, che tempestavano la volta celeste come tanti splendidi fiori. E in mezzo, a squarciare in due il cielo, c’era la Via Lattea. Bianchissima, luccicante come una pennellata d’oro sopra una tela.

Non so quanto tempo rimasi a guardarla, so solo che, in tutta la mia esistenza, non mi ero mai sentita viva come in quel momento. All’improvviso realizzai che sì: ero lì. Stavo veramente compiendo il viaggio più avventuroso della mia vita.

Da non credere quanta strada avevamo fatto. Eravamo partite da Mosca solo due settimane prima. Era passato pochissimo tempo da quando avevamo lasciato quella città, ma dopo tutta la strada, i climi e i paesaggi che avevamo solcato, il ricordo di quel posto era così lontano, disperso nel fondo della mia mente, quasi fossimo state lì tanti anni prima. Anche Sona e Anastasia, le due amiche russe di Margherita, sembravano ormai distanti come miraggi. Sona era di origini armene, proprio come il suo nome, ma era nata a Mosca. Era molto alta e aveva la pelle bianca come una perla, disseminata di lentiggini attorno ai grandi occhi neri. Voleva diventare critico cinematografico, ma nel frattempo lavorava all’Università. Anastasia invece era più minuta ed esile. Aveva gli occhi piccoli e azzurri, i capelli nocciola e uno sguardo ironico e impertinente. Lavorava come giornalista sportiva, ma quel posto non le piaceva e voleva cambiare. Ci avevano fatto da guide dentro la capitale per tre interi giorni. Con loro avevamo visitato la chiesa di San Basilio, il Cremlino e la Piazza Rossa, cosparsa di militari che passeggiavano ridendo e fumando sigarette. Eravamo entrate a sbirciare i locali dei quartieri ricchi e ci eravamo sdraiate per strada ad ascoltare un concerto a Novyj Arbat, circondate dai grattacieli. Avevamo attraversato il Gorky Park, in mezzo ai teenager che correvano in skateboard e ai bambini che si schizzavano a vicenda dentro alle fontane. E ci eravamo soffermate lungo la via Nikolskaya, sovrastate dalle tante luci a forma di farfalle che calavano dall’alto sopra di noi. Erano passate in fretta quelle giornate e, proprio quando ci stavamo

iniziando ad ambientare, arrivò il momento di andarsene. Era ora di iniziare il nostro viaggio: la Transiberiana.
Quando arrivammo la sera del 3 Agosto alla stazione di Mosca Jaroslavskij, non facevamo che tremare. Io camminavo lentamente, guardandomi intorno con gli occhi spalancati per l’eccitazione. O forse per la paura. Attorno a me la stazione era brulicante di gente. Le luci fioche dei lampioni illuminavano decine di volti pallidi ed eterei, incorniciati da capelli biondi e incastonati di occhi azzurro cielo. Mi scambiai uno sguardo confuso con Margherita: erano tutti russi. Eravamo le uniche due turiste in quella gigantesca stazione. Le sole straniere a salire su quel treno. Mentre camminavamo spaesate, tenendo tra le mani sudaticce il biglietto e cercando di individuare la nostra carrozza, strani rumori metallici scandivano i nostri passi. Mi voltai incuriosita. Gruppi di uomini, probabilmente addetti alla manutenzione, erano inginocchiati sulle rotaie e con dei cacciaviti colpivano le componenti meccaniche poste sotto il treno, forse per controllare che non fossero allentate. Di conseguenza, l’aria quella sera era impregnata di suoni ferrosi che si alternavano gli uni agli altri come un coro di campane. Ancora non lo sapevamo, ma quel piccolo concerto avrebbe scandito l’intero nostro viaggio, accogliendoci ad ogni stazione, quasi come un saluto di benvenuto. Continuammo a camminare lungo i binari e a un certo punto trovammo la carrozza. Di fronte si ergeva una donna paffuta e severa, intenta a controllare i passaporti di chiunque volesse salire. Lanciai una rapida occhiata a Margherita. In lei trovai tutti i miei timori, la stessa spaventata trepidazione che mi sentivo dentro. Capivamo di stare per avventurarci in qualcosa di più grande di noi. Ma eravamo pronte. Ci sentivamo elettriche, in totale fibrillazione, impazienti di accogliere nei nostri occhi ogni dettaglio di quella avventura straordinaria. Quel viaggio che stavamo progettando da un intero anno e che adesso era finalmente lì, di fronte a noi. La signora passò in rassegna i nostri documenti, poi ci squadrò con aria burbera e si fece da parte. Era il momento di salire.

Una volta entrate ci ritrovammo davanti un lungo e stretto corridoio, grondante di persone che camminavano affannate in su e giù, trascinandosi dietro le valigie. Sulla parete sinistra si susseguiva una serie di porte contrassegnate da numeri romani: erano gli ingressi alle cabine. Avanzammo di pochi passi e trovammo subito la nostra, la numero III. Una ragazza bionda e una bambina di circa otto anni si affacciarono dalla stanza e ci rivolsero un timido sorriso: erano le nostre compagne di cuccetta. Ricambiammo il saluto ed entrammo. L’interno era piccolo e fornito di quattro letti a castello. Le pareti erano tutte rivestite di legno, come i parquet che ricoprono i pavimenti delle nostre case. Ad un tratto, una voce alle nostre spalle ci fece trasalire e voltare di scatto. La signora che ci aveva controllato i documenti poco fa adesso si stagliava di fronte a noi, tendendoci le lenzuola e le federe con cui avremmo potuto rivestire i nostri letti. Lo facemmo all’istante, ci accoccolammo tra le coperte e ci lasciammo cullare dal dondolio soffuso del treno, che ormai aveva acceso i suoi motori ed era partito dolcemente, dando inizio alla sua corsa e al nostro lungo viaggio.

Passammo due giorni, in quella carrozza. La ragazza bionda e la bambina scesero alle prime luci dell’alba e nella cabina rimanemmo da sole per moltissime ore. Nessuno sapeva parlare inglese, né i passeggeri né il personale del treno. Per caricare i telefoni c’era una sola presa in tutta la carrozza, in fondo al corridoio, ma non aveva grande utilità, visto che non c’era campo né connessione Internet. Siccome i cellulari non funzionavano, era impossibile localizzarci con il GPS e capire dove ci trovassimo, che ore fossero e quale fuso orario stessimo attraversando, visto che cambiava ad ogni città. Attorno a noi il tempo sembrava essere sospeso. Eravamo come in un limbo, galleggianti in una dimensione lontana dalla vita reale. Viaggiavamo per ore e ore sapendo soltanto di essere in un qualche luogo imprecisato della Siberia, senza avere idea di quanto ancora dovessimo rimanere sopra il treno, prima di scendere. La carrozza brulicava di persone in pigiama, stropicciate e sbadiglianti, che si muovevano lente proprio come lo scorrere dei giorni, in quello strano viaggio. Tutto era avvolto dal silenzio. Il treno dondolava dolcemente, come fossimo su una nave. In fondo al corridoio c’era un unico bagno, sporco e immerso in una perenne pozza d’acqua. Dal lavandino usciva solo un rigolo fioco, che rendeva impossibile lavarsi bene. In cima al corridoio c’era invece una stanzetta dove soggiornava il controllore. Bussando alla sua porta potevamo chiedergli da mangiare. La scelta era limitata: a parte snack e biscotti, per i pasti principali ripiegavamo su delle scatolette piene di polveri liofilizzate, che dovevamo aprire, mettere sotto un rubinetto di acqua bollente, situato in corridoio, e mescolare con un cucchiaio. Il risultato erano delle zuppe o una sorta di purè. La cosa più buona però erano dei fagottini di pasta caldi, ripieni di carne o di verdure, che una volta al giorno le signore del personale portavano dentro a delle ceste di vimini, diffondendone il profumo per i corridoi. Nella maggior parte delle stazioni ci fermavamo pochi minuti e subito ripartivamo. Certe volte, invece, sostavamo per lungo tempo, fino quasi a un’ora. A quel punto tutto il treno si svuotava. Centinaia di persone, ragazze, uomini, controllori, bambini e anziani scendevano dalle carrozze e si riversavano lungo i binari. Tutti in pigiama, in calzini e pantofole, i capelli spettinati, i volti sonnecchiosi e raggrinziti. Ed ecco che in mezzo alla gente apparivano le babushke: vecchie venditrici che aspettavano i treni alle stazioni e, una volta che i passeggeri erano a terra, si muovevano tra la folla stringendo grosse ceste ricolme di focacce e frutta fresca. Tra un binario e l’altro, sennò, c’erano delle edicole strabordanti di panini, cibo in scatola e bibite, vendute a basso prezzo da giovani ragazze imbronciate. Per raggiungere questi piccoli loculi, decine di persone attraversavano a piedi i binari: eserciti di ragazzini urlanti, mamme con i bambini mezzi addormentati tra le braccia, anziane con i gonnelloni sollevati, tutti che si tenevano per mano e avanzavano incespicanti alla ricerca del cibo. Una volta scaduto il tempo a nostra disposizione, risalivamo lentamente in carrozza, ci riappropriavamo del nostro posto e piombavamo di nuovo in un surreale silenzio, mentre i motori si accendevano e il treno riprendeva a cullarci nel suo dolce dondolio.

Piano piano ci eravamo abituate a convivere con il senso di spaesamento, a perdere la nozione del tempo. Passavamo la giornata a pensare e a guardare il paesaggio srotolarsi maestoso davanti ai nostri occhi, fuori dai finestrini. Non parlavamo neanche tra di noi. Eravamo silenziose e sospese, proprio come ogni cosa in quel lungo viaggio. Avevamo accettato l’idea di non avere niente da fare per ore. E godere di questo.

Ci eravamo ambientate alla Seconda Classe. Lentamente, il velo della timidezza ci scivolò di dosso e iniziammo a fare amicizia con gli altri viaggiatori. Parlavamo a gesti, come dei goffi attori di mimo. In poco tempo il corridoio della nostra carrozza si era gonfiato di passeggeri, tutti usciti dalle loro stanze e ammassati attorno a noi, curiosi di capire chi fossero e da dove venissero le due straniere della cabina III. Alla fine di quei due giorni avevamo fatto amicizia con tutto il vagone.

Quando arrivammo a Ekaterinburg erano le cinque di mattina e c’erano otto gradi. Tutti i bar, i negozi e i musei erano ancora chiusi e ci aspettava una lunga giornata, prima di risalire sul treno la sera stessa. Non avevamo alcun posto in cui ripararci dal freddo. Mentre stavamo per scendere dal treno, una delle donne che avevamo conosciuto, Natalia, si avvicinò a noi e utilizzò Google Traduttore per convertire una frase dal russo all’inglese: “Fuori è troppo freddo e non avete dove andare. Venite da me, vi preparo la colazione”.

Mai niente nella vita mi era sembrato più buono di quella frittata col pomodoro. Natalia ci ospitò da lei, cucinò per noi e ci mise a disposizione il bagno per lavarci e cambiarci i vestiti. A gesti ci spiegò che non aveva più il marito, suo figlio Alexey studiava recitazione a Mosca e lei viveva a Ekaterinburg da sola, lavorando come architetto. Quando, intorno alle dieci, il freddo era passato sfoderò nuovamente Google Traduttore: “Usciamo, vi mostro la città!”. Passammo insieme tutta la mattina, visitando chiese, parchi e camminando per il centro. Dopo pranzo ci accompagnò nei pressi della stazione e ci salutammo con un lungo abbraccio e la promessa di rimanere in contatto. E l’abbiamo mantenuta. Tutt’oggi, infatti, ci scriviamo messaggi sgrammaticati, messi insieme alla meglio con il nostro ormai affezionato Google Traduttore, per aggiornarci sulle nostre vite. Amicizie così, tanto brevi quanto sbalorditive e intense, ne abbiamo strette molte durante il cammino. Come quella con Evelyn, cinque anni, e la sua mamma Nastia, con cui passammo il pomeriggio a disegnare, a giocare con le bambole e a modellare cagnolini di pongo, lungo il viaggio per Novosibirsk. A fine giornata, quando stavano per scendere dal treno, ci regalarono del cibo, delle salviette umidificate per lavarci, un rotolo di carta igienica (nel bagno era perennemente esaurita) e un caricatore portatile per il telefono. O come quella con Klara, quarant’anni, e il figlio Yerman, undici, conosciuti in viaggio verso Ulan Ude. Lei era una madre dolcissima e premurosa,

proprio come Nastia. Durante il pomeriggio stese una tovaglietta sul piccolo tavolo che stava tra i letti a castello e lo apparecchiò con tanti contenitori di plastica, che una volta scoperchiati rivelarono pietanze profumate. Io guardavo quel cibo con l’acquolina in bocca, come se non mangiassi da mesi. Klara alzò lo sguardo e mi fissò con aria interrogativa, poi si rivolse a suo figlio e gli disse qualcosa in russo. Yerman si voltò verso di me e mi chiese in un inglese tremolante: -Mamma vuole sapere perché non stai mangiando, non ti piace?

Era proprio così, la vita sul treno. Nessuno di noi conosceva la lingua dell’altro, eppure parlavamo per giornate intere, con suoni, gesti e qualunque espediente ci venisse in mente. In quelle tratte della durata di due o tre giorni diventavamo delle piccole famiglie. E ci volevamo bene proprio come se ci conoscessimo da sempre.

Del resto, quando salutammo Natalia e lasciammo Ekaterimburg per riprendere il nostro viaggio, conoscere persone nuove divenne davvero inevitabile. Da quel momento in poi, infatti, abbandonammo la Seconda Classe, troppo costosa per noi universitarie squattrinate, e iniziò per me e Margherita la vera Transiberiana, quella vissuta nella sezione più povera e difficoltosa del treno: la Terza Classe.

Salire su quei vagoni, inizialmente, fu un piccolo trauma. L’interno era simile a quello della Seconda Classe, ma con delle sostanziali differenze. Il corridoio, infatti, era strabordante di letti, che si alternavano uno dopo l’altro sotto le finestre. Una prima fila di essi era ben ancorata a terra e le cuccette si potevano ripiegare su loro stesse per ricavarne delle sedie. Sopra questi c’era poi un’altra sequenza di letti agganciati saldamente alla parete, al di sopra dei finestrini. Erano totalmente privi di scalette per raggiungerli, cosicché per salirci sopra era necessario arrampicarsi sui tavoli, sulle cuccette circostanti o su qualsiasi cosa potessimo appoggiare i piedi. A sinistra del corridoio non c’erano più le cabine. I letti a castello erano ammassati tutti insieme, senza pareti né porte né alcun tipo di divisorio. Il vagone era completamente saturo di esseri umani. Anziani, ragazzi e bambini stipati l’uno accanto all’altro. Nessun tabù, nessuna distanza né muro. Enormi ostelli viaggianti.

Sedute in Terza Classe attraversammo tutta la Siberia e fu lì che conoscemmo Evelyn, Nastia, Klara e Yerman. Ma anche Siaughush, un cinquantenne Azerbaijano che ci intrattenne con dei giochi di prestigio; Federico e Cecilia, gli unici italiani mai incontrati su questi treni; Liana, una ventiseienne agile come una libellula, che si arrampicava sulla sua cuccetta con la semplicità di una scalatrice professionista. E poi Kidan e Ivan, due signori della Buriazia che avevano i letti troppo in alto e invece di scendere e salire ogni volta preferivano sedersi su quelli degli altri, situati in basso, venendo continuamente scacciati dai proprietari. Io e Margherita li facevamo sempre sedere accanto a noi e passavamo la giornata giocando a carte. Quando arrivammo a Ulan Ude e ci preparammo per scendere, ci abbracciammo come se separarci fosse la sofferenza più grande delle nostre vite. E furono tante anche le nostre fermate. Facemmo tappa a Novosibirsk, dove visitammo il Teatro dell’Opera, uno dei più importanti di tutta la Russia, ammirammo l’imponente gruppo di sculture di Lenin, della grandezza di dieci metri, e passeggiammo lungo il fiume Ob’. Assistemmo alle cerimonie ortodosse nelle chiese di Irkutsk, tra le più belle mai viste in vita mia. Arrivate in quella città, prendemmo un pullman piccolo e tremolante che ci portò fino al lago Baikaal: il più profondo del mondo. Sull’autobus per raggiungere il lago conoscemmo Lapo e Francesca, due impiegati di banca senesi con cui chiaccherammo per l’intero viaggio. Arrivate a destinazione, prendemmo un traghetto per attraversare quel gigantesco specchio d’acqua. Descrivere la calma che permeava quel posto sarebbe impossibile. Attorno a noi fluttuava un silenzio impalpabile, interrotto solo dal rumore lento e soffuso del motore del traghetto. Le colline rotolavano dolcemente davanti ai nostri occhi, brillanti e soffici. Il vento ci sospirava delicato tra i capelli, mentre avanzavamo a rilento sopra la superficie del lago. Tutto intorno, decine di gabbiani fendevano l’aria, sottili e leggeri come aeroplanini di carta. Danzavano soavi di fronte ai nostri sguardi. E mi sentivo proprio come loro, in quel momento. Libera.

Una volta finita la traversata, scendemmo sull’isola che sorgeva in mezzo al lago: Olkhon, la terra degli sciamani. Tra le colline era appollaiato un villaggio povero e scalcinato, fatto di strade sterrate e polverose e case decadenti. I cani randagi che razzolavano per quelle vie si affezionarono subito a

noi e ci accompagnarono nella nostra passeggiata. Eravamo disperse in mezzo a un manto di erba e di fiori, che si stendeva morbido su tutta l’isola, scintillante e vivido. Di tanto in tanto, tra le colline sbocciavano grandissimi alberi, dai cui rami pendevano lunghe e variopinte strisce di stoffa: preghiere votive tipiche delle cerimonie sciamaniche. All’orizzonte, l’acqua si estendeva a vista d’occhio, piatta e lucente come uno specchio, il cui confine si mescolava a quello del cielo. Dalle sue sponde, sulla costa nord-ovest dell’isola, emergevano delle enormi pareti di sassi, la Roccia dello Sciamano: una gigantesca scogliera che fendeva la superficie del lago, sede di misteriose pratiche rituali. E sul punto più alto di quella terra incantevole si stagliavano maestosi tredici totem, avvolti da nastri colorati.

Fu molto dura andarsene e lasciare quel luogo. Questa era la costante del nostro viaggio. Non appena ci adattavamo ad un posto, ecco che ci rimettevamo lo zaino in spalla e ripartivamo.
E così, dopo aver visitato Ulan Ude, aver passeggiato per il centro storico e aver visto l’enorme statua della testa di Lenin, lasciammo la Russia. Eravamo dirette in Mongolia.

Sopra un piccolo autobus rigonfio di turisti, pian piano dicemmo addio a quella terra che nelle ultime settimane stavamo imparando a conoscere così bene. Il paesaggio iniziò lentamente a cambiare sotto i nostri occhi. Le grandi steppe si sollevarono e diventarono colline, che ci correvano attorno verdissime e sconfinate. Il nostro cammino era continuamente interrotto da mandrie di mucche e capre che, con fare docile e pacato, ci attraversavano la strada. Tutto intorno, branchi di cavalli correvano liberi nelle praterie, solcando a decine l’orizzonte. Osservarli slanciarsi allo stato brado, eleganti e possenti, mi toglieva il fiato. Passai la giornata a fissarli. Non avevo mai visto niente di simile.

Dopo dodici ore di viaggio arrivammo a Ulan Bator, la capitale, dove incontrammo il ragazzo che sarebbe stato la nostra guida per tutta la settimana: Gtso. Una delle amicizie più belle che abbiamo stretto in viaggio è stata proprio con lui. Ventotto anni, sposato con due figli piccoli, Gtso si guadagnava da vivere facendo la guida turistica per una compagnia australiana, ma da due anni aveva aperto un’agenzia tutta sua, composta da una dozzina di dipendenti al suo servizio. Lavorava sei mesi organizzando tour guidati in Mongolia, Russia, Cina o lungo la Transiberiana, viaggio che intraprendeva circa tre o quattro volte all’anno. Durante i sei mesi di bassa stagione, invece, si spostava in Corea e si dava da fare come muratore o operaio nelle acciaierie. In quella settimana passata assieme si prese cura di noi come un fratello maggiore, riservandoci una premura e delle cure che raramente capita di ricevere.

Durante quella settimana visitammo i templi buddisti. Tra questi ci fu il monastero di Erden Zu, il più antico rimasto in Mongolia. L’interno era cosparso di tappeti. Lunghi drappi colorati scendevano dal soffitto, sfiorando statue, effigi e strumenti musicali che campeggiavano dappertutto, come in un gigantesco bazar. Di fronte alle enormi statue di Buddha stavano seduti i monaci, accomodati a terra e abbigliati con lunghe vesti rosse. Le loro voci si univano in preghiera come fossero canti, mentre leggevano la Sutra con fare solenne. Fuori dall’edificio l’aria era pregna di incenso. I devoti si sdraiavano supini sulla strada sterrata, per poi alzarsi e sdraiarsi ancora. Dovevano farlo centootto volte: il numero sacro del buddismo orientale. Ovunque, adulti e bambini si mettevano in fila per toccare i chokhor, cilindri dorati costruiti attorno a un perno che i credenti ruotavano in senso orario, affidandogli le loro speranze.

Ma uno dei ricordi più belli fu la visita all’ Hustai National Park. Per tutto il pomeriggio, io Margherita e Gtso corremmo tra le vallate a bordo di una jeep, in cerca dei cavalli selvaggi. Io stavo seduta sul sedile posteriore, lasciando che il vento scivolasse nell’auto stropicciandomi i capelli, godendo di quel paesaggio fatto di prati verdi e cieli sconfinati. Le colline si stagliavano enormi sopra di noi, circondandoci. Ma la nostra guida era esperta e insieme avanzavamo veloci, fendendo l’aria e la gravità, volando come le aquile che scorgevamo all’orizzonte. E poco a poco iniziammo a trovarli. Dapprima erano lontani, mimetizzati tra le rocce, poi iniziarono ad uscire allo scoperto. Erano più piccoli di quelli europei, avevano un manto marrone chiaro e un collo cortissimo. Erano tra gli ultimi esemplari di cavallo selvaggio rimasti al mondo. A un certo punto, Gtso ci chiamò sottovoce, si portò il dito sulla bocca, avvisandoci di fare silenzio, e indicò un gruppo di cespugli in

cima a una collina. Socchiusi le palpebre e guardai attentamente. Uno dei cavalli si era allontanato dal gruppo e adesso era lì, a brucare l’erba vicinissimo a noi. Iniziammo tutti a trattenere il fiato, muovendoci con cautela per non farlo scappare. Lentamente ci avvicinammo. Lui parve non accorgersi di noi, continuava a mangiare senza dare peso al mondo circostante. Poi ad un tratto alzò la testa e ci guardò. Uno sguardo fiero, senza paura: non aveva intenzione di scappare. Rimanemmo a fissarlo per molto tempo, poi fummo noi ad andarcene, risalendo sulla jeep e lasciandolo lì, immerso nel prato.

E infine giungemmo lì, nella gigantesca valle dove è iniziato questo racconto, sommerse dalla Via Lattea e da una foresta di stelle. Gtso ci aveva portato da una famiglia di nomadi che ci avrebbe ospitati per la notte. Loro, come tutti quelli che non si erano trasferiti a Ulan Bator, vivevano ancora nelle gher, grandi tende imbottite e arredate, disperse in una prateria lontana chilometri da qualsiasi altro essere umano. Non c’era elettricità, né acqua corrente. Il bagno era un buco scavato per terra. Greggi di pecore ci camminavano accanto, tornando mansuete all’ovile poco distante dalla nostra tenda. Tutt’attorno c’erano solo rocce e colline. Pura natura selvaggia, incontaminata. Quella esperienza, ancora oggi, la ricordo come la più forte e bella della mia vita.

Nei giorni successivi andammo nel deserto, visitandolo sopra traballanti cammelli. A un certo punto, però, scendemmo, ci togliemmo le scarpe e continuammo la traversata così, con le dita che affondavano nella sabbia calda e un tiepido vento che ci accarezzava la pelle, correndo in mezzo alle dune che si susseguivano fino a perdersi lontano. Salimmo anche sulla statua di Gengis Khan, una delle più alte al mondo, e facemmo il “cammino della meditazione” lungo la collina Zisan, diretti al monastero di Gandan. Infine, raggiungemmo il Gorkhi-Tereji Park per scalare l’enorme Turtle rock: la gigantesca roccia a forma di tartaruga.
Quando arrivò il momento di ripartire, Gtso ci accompagnò in auto alla stazione. Nonostante fosse mattina presto, decine di persone erano già riversate lungo i binari e uno sciame di voci volteggiava nell’aria. Camminando verso il treno, i suoni metallici dei cacciaviti sbattuti sui motori tornarono ad accoglierci, quasi a darci il bentornato dopo tanto tempo. Ci voltammo verso Gtso, consapevoli che non ci saremmo visti mai più, e ci stringemmo in un abbraccio commosso. Fu solo dopo che eravamo salite in carrozza e avevamo preso posto a sedere che lui se ne andò, quando oramai era sicuro di non potersi più prendere cura di noi. Rimanemmo ad osservarlo mentre si allontanava, con quel passo rapido e deciso che ormai conoscevamo bene, pronto a salire sulla sua jeep e andare incontro ad altri turisti, ad altre vite. E con le lacrime agli occhi, abbandonammo quella dimensione onirica e placida che era stata la Mongolia e ritornammo alla condizione per noi più familare. Quella del viaggio. Del continuo movimento. E fu quando il treno iniziò a fischiare e si abbandonò dolcemente al suo solito dondolio, che noi iniziammo il nuovo capitolo di quella incredibile avventura. Ci aspettava un viaggio di trenta ore attraverso il deserto del Gobi, da Ulan Bator a Pechino: la Transmongolica.

Stavolta facemmo il viaggio in Seconda Classe, semplicemente perché la Terza su quel treno non esisteva. Il vagone aveva lo stesso aspetto di quello sulla Transiberiana, ma ancora più elegante e pulito. In quelle ore facemmo amicizia con Dylan, un ventunenne olandese che lavorava in una fabbrica di cioccolato e si era preso le ferie per viaggiare dalla Russia all’India. Tirguish, invece, era una ragazza di ventitré anni che stava per aprire un nuovo capitolo della sua vita: lasciare la Mongolia per andare a studiare in Cina, alla facoltà di Fisica. Passammo le trenta ore successive a ridere e scherzare con loro, mentre il deserto roccioso ci scivolava accanto, facendo capolino dai finestrini.

Arrivati a destinazione ci accolse un pomeriggio assolato e umido. Salutammo i nostri amici e li lasciammo alle loro rispettive avventure, poi uscimmo dalla stazione. In un attimo, una marea di gente si infranse su di noi. Centinaia di persone, troppe per vederne la fine, brulicavano in ogni direzione, disseminandosi per la piazza, i marciapiedi e i vicoli. Ci facemmo largo tra adolescenti schiamazzanti e comitive di turisti, alla ricerca della via per il nostro ostello. Attorno a noi, stormi di bici, vespe e camioncini zigzagavano tra le auto strombazzanti. L’aria era satura di umidità e smog. Lungo la strada per l’albergo, enormi grattacieli si arrampicavano tra le nuvole. A pochi quartieri di

distanza gli hutong, antichi vicoli sopravvissuti alla modernizzazione, si affacciavano timidamente con i loro odori, i gatti miagolanti e i vestiti stesi ad asciugare. Le persone ci passavano accanto lanciandoci rapide occhiate, incuriosite dalle nostre fisionomie occidentali. I bambini ci fissavano sorridendo e salutandoci con un “Hello!”, per poi ridacchiare divertiti quando gli rispondevamo. Noi guardavamo tutto questo ad occhi sgranati, emozionate e sognanti. Eravamo a Pechino.

Passammo nella capitale un’intera settimana. Visitammo il Tempio del Cielo, il Tempio dei Lama e quello di Confucio, disperdendoci tra le centinaia di devoti che si inginocchiavano a pregare, impregnando l’aria col profumo di incenso; passeggiammo tra gli imponenti edifici della Città Proibita, antica dimora dell’imperatore, e tra quelli del Palazzo d’Estate. Raggiungemmo Piazza Tienanmen, la più grande del mondo, e poi ci spostammo fino alla Wangfujing Snack Street: il lungo viale di bancarelle ricolme di scorpioni, rospi fritti, pipistrelli e tanto altro. Durante le serate passate in ostello conoscemmo Lane, una ragazza che un anno prima aveva lasciato il Texas per girare tutta l’Asia da sola, e Zhouyaxiong, che proveniva dalle campagne cinesi ed era venuto a festeggiare i suoi ventun’anni nella capitale. Incontrammo Lisa, una svedese alla ricerca di un lavoro a Pechino, e Ranco ed Anna, una coppia di russi che ogni estate facevano una settimana di vacanza in un Paese diverso. Arrivate ormai alla fine del nostro viaggio, decidemmo di andare a passare gli ultimi tre giorni a Huanghuacheng, un paesino che sorgeva sotto la Grande Muraglia, così da poterla visitare. Lungo il tragitto in autobus che ci conduceva al paesino ne attraversammo molti altri, piccoli e addormentati in mezzo alla campagna. La foresta era enorme, straripava attorno alle case e alle strade imponendosi ovunque, maestosa e lucente. Di tanto in tanto qualche ruscello si scavava il cammino in mezzo ai prati. Sulle sue sponde, gruppi di bambini correvano e giocavano, con le gambe corte e cicciottelle immerse fino alle ginocchia nell’acqua. Anche il paese in cui arrivammo era così, minuscolo e quieto, abbracciato dagli alberi che gli si stringevano attorno come una cornice. A quel punto, però, si presentò un problema: trovare l’albergo. Scoprimmo presto che sugli edifici non c’erano i numeri civici. Armate del nostro fidato telefono, iniziammo a muoverci tra la gente mostrando a tutti l’indirizzo dell’hotel. Entrammo in un edificio che si rivelò un negozio, poi in un albergo che scoprimmo non essere il nostro e in numerosi viottoli sparpagliati per tutto il villaggio. A un certo punto un signore a cui avevamo chiesto informazioni ci indicò di sederci sui gradini di un bar, accanto a due anziane che probabilmente erano sue parenti, e se ne andò. Io e Margherita ci guardammo confuse. Le vecchine ci fecero accomodare accanto a loro e ci dettero un gelato. Passammo quasi un quarto d’ora a mangiare e a chiacchierare con loro, sedute sulle scale del negozio, finché l’uomo di prima non riapparve. Era andato a cercare l’albergatrice e l’aveva condotta da noi. Rimanemmo talmente colpite e commosse dal suo gesto che, da quel momento, tornammo a trovarli al bar per tutti e tre i giorni. È proprio questo l’ultimo ricordo che ho di questa incredibile avventura. Noi seduti tutti assieme su dei gradini grigi, a raccontare le nostre vite gesticolando e traducendo le frasi sul cellulare, a chiacchierare e a mangiare insieme il gelato.

E sono stati gli episodi come quello ad essermi rimasti dentro, più di qualsiasi bel paesaggio o città visitati lungo il cammino. Sono state le persone che abbiamo incontrato, i momenti di spontanea gentilezza e umanità condivisi con loro, ad avermi lasciato un segno. Ad avermi fatto crescere. Ed è stato dopo aver visitato la Grande Muraglia, essere rientrate a Pechino e poi in Italia, che mi accorsi che qualcosa in me era diverso. Tornata a casa ho ritrovato la mia vita esattamente come l’avevo lasciata. Gli amici, gli impegni quotidiani, lo studio e la famiglia. Tutto era lo stesso. Ma ero cambiata io. Mi ero incastonata quel viaggio nel cuore e ormai lo tenevo sempre con me. Mi ero portata dietro tutti gli insegnamenti ricevuti, tutti i volti in cui mi ero imbattuta. E da quella esperienza ero uscita diversa. Più grande. Ho imparato ad accogliere gli altri nella mia vita. Come ad esempio accadde in un pomeriggio afoso e assolato, qualche settimana dopo il mio ritorno a casa. Ero su un treno diretta a casa dei miei genitori. Accanto a me era seduto un signore distinto, sui cinquant’anni. Fissava il vuoto girandosi i pollici, palesemente annoiato. Fino a un mese prima sarei rimasta sulle mie, un po’ per diffidenza e un po’ per noncuranza, e avrei passato le due ore e mezzo a guardare fuori dal finestrino, ascoltando la musica con l’Ipod. Ma avevo fatto la Transiberiana.

Quindi mi voltai verso quell’uomo e mi aprii in un grande sorriso: -Piacere, mi chiamo Beatrice. E lei?
E ho finalmente imparato a smarrirmi. Durante quel lungo viaggio ci eravamo perse, tante e tante volte. Poi ci eravamo ritrovate e perdute di nuovo. Ancora e ancora. Come quella volta nella prateria, con il naso all’insù, a riempirmi gli occhi con la Via Lattea e con quel cielo stellato. O durante una passeggiata nel parco Beihai a Pechino, trovato assolutamente per caso, osservando le ninfee che venivano cullate dal lago. Perché era proprio questo il senso del nostro viaggio. Perdersi. Mangiare con lo sguardo la meraviglia del mondo che ci circondava e abbandonare noi stesse. Spingere via i tabù, i pregiudizi e le paure. Lasciarci scappare di dosso le nostre solide certezze, ogni punto di riferimento, ogni controllo sul mondo, sul tempo, sulle nostre vite. Immergerci dentro quelle lente giornate di treno, conoscere estranei e trovarsi ad essere subito amici, a provare per loro un affetto estremo e sconfinato. Questo ci ha insegnato la Transiberiana: viaggiare per il puro gusto di farlo. Spostarsi e muoversi, senza una meta. Stringere legami fugaci ma indissolubili. Vivere. Sfacciatamente.

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