L'opinione

#tiromancino – Aziende mignon e fuga dei cervelli. Ecco perché la Maremma morirà

Tiro Mancino

GROSSETO – Sotto il profilo imprenditoriale, piccolo non è bello. E nemmeno entusiasmante per l’occupazione. Bisogna avere l’assillo di chiamare le cose con il loro nome, perché è l’unico modo per trovare il bandolo dell’intricata matassa costituita dalle poco rassicuranti condizioni dell’economia maremmana. Residualmente vocata all’export e troppo dipendente dalla domanda interna per consumi. Caratterizzata da bassi investimenti in tecnologia e innovazione a causa della quota risicata del comparto manifatturiero, scarsamente attrattiva per i capitali stranieri.

Un mix bestiale che ha un effetto concreto sul piano occupazionale. Al di là della fiacca domanda di nuovi posti di lavoro a fronte di una vasta offerta, infatti, il vero problema è che il tessuto d’impresa non è in grado di assorbire i profili professionali a più alta qualifica (i cosiddetti high skills). Che appena possono se la danno a gambe levate. E questo, sostanzialmente perché le aziende insediate in provincia di Grosseto sono troppo piccole per assorbirli.

Per capire, vale la pena cominciare da un dato statistico reperito casualmente nella pubblicazione “Il Comune di Grosseto dalle elezioni comunali al referendum costituzionale”, frutto del lavoro di Gilberto Capanni, statistico in pensione, appassionato di politica e cose grossetane. Alla tavola numero 20 di pagina 31 del volumetto pubblicato lo scorso anno – dedicata alla «distribuzione della popolazione nel periodo 2002/2016» – si scopre infatti che nei quindici anni considerati, in provincia di Grosseto le quattro classi d’età comprese tra i 20 e i 39 anni hanno tutte quante registrato una perdita secca di residenti. -8.66% la classe d’età da 20 a 24 anni. -26.63% da 25 a 29 anni. -26.38% da 30 a 34, e infine -11.66% dai 35 ai 39 anni. Un trend negativo eclatante e nel tempo crescente, che a prim’acchito lascia esterrefatti. E che probabilmente risulterà a consuntivo anche nel biennio 2017/2018.

Il motivo principale di questa sparizione dai radar di residenti che in ottica economica si collocano nella fase iniziale e più produttiva della vita lavorativa, dai 20 ai 39 anni, è senza dubbio quello della difficoltà a trovare sul territorio un’occupazione adeguata rispetto alle proprie aspettative. Al proprio progetto di vita. Con la conseguente migrazione verso altre realtà toscane, italiane ed estere, di una fetta consistente di giovani diplomati e laureati. Con buona probabilità statistica quelli in possesso di competenze più elevate.

L’altro corno del problema, non a caso, è che in provincia di Grosseto c’è un numero esorbitante di piccole imprese – per Il Sole 24 Ore Grosseto è la prima provincia d’Italia per imprese registrate ogni 100 abitanti residenti – che sono il 95,8% del totale (su 29.243), secondo la recente indagine del centro studi della Camera di commercio su “La dimensione del tessuto imprenditoriale nelle province di Grosseto e Livorno”. Nello studio le piccole imprese considerate sono quelle con fatturati fino a 250.000 Euro, e Grosseto da questo punto di vista occupa il 13° posto nella graduatoria italiana ed è al primo posto fra le province della Toscana. Viceversa, più cresce la dimensione aziendale, più Grosseto scende in classifica: 97° posto (2,5% del totale) per le imprese medio piccole, con fatturato da 250.000 euro a un milione. 87° (1,6% del totale) per quelle medio grandi, con fatturato da uno a dieci milioni. 91° (0,15% del totale) per le grandi imprese, con fatturati oltre i 10 milioni.

Restringendo la visuale alla Toscana, la provincia di Grosseto è la prima per incidenza delle piccole imprese, e l’ultima per tutte le altre tre classi dimensionali crescenti. Per di più – sottolinea la ricerca della Camera di commercio – a livello regionale «è proprio in Maremma che si registra la maggior contrazione di imprese con valore della produzione oltre i 10 mln/€».

Da un punto di vista macroeconomico, però – come il 3 febbraio ha spiegato al Sole 24 Ore Giovanna Fullin, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro alla Bicocca di Milano – il cosiddetto mismatch (mancato incrocio) di domanda e offerta di lavoro fra neolaureati e candidati giovani, è dovuto al fatto che «In Italia scontiamo una struttura produttiva e una domanda di lavoro poco qualificata, a fronte di un’offerta di lavoro molto qualificata». Sul basso livello degli impieghi offerti incide prima di tutto la dimensione media delle nostre imprese e la loro scarsa capacità d’innovazione. «Si tratta di aziende che, tendenzialmente, non hanno interesse ad assumere candidati di altro profilo – aggiunge Fullin – Da qui anche i bassissimi valori degli investimenti nazionali in ricerca e sviluppo. Un settore che garantirebbe la crescita dell’occupazione di qualità». Condizione a cui si aggiunge un altro gap nel settore pubblico, immobile da tempo, che all’estero viene considerato uno dei bacini privilegiati per l’occupazione di livello medio-alto.

Da notare che in Italia, e quindi in proporzione più o meno anche in Maremma, secondo Eurostat (dato 2017) solo una persona su sei ha la laurea fra quelle in età da lavoro. Il secondo dato peggiore in Europa dopo la Romania. Sia per uomini laureati – il 13,7% di coloro che hanno tra i 15 e i 64 anni – sia per le donne, al 18,9%. In entrambi i casi i peggiori nella Ue alle, sempre alle spalle della Romania.

Quello di cui bisognerebbe preoccuparsi in modo preminente, quindi, non è l’inesistente invasione dei migranti, ma sarebbe il rafforzamento del tessuto d’impresa. Favorendone con politiche mirate la crescita dimensionale o l’organizzazione in consorzi o reti d’impresa. Così come sarebbe determinante favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, affinando l’offerta formativa ed evitando ad esempio – proprio come è emerso in questi giorni a Grosseto – di mettere in campo tre indirizzi di studio fotocopia in altrettanti Istituti comprensivi.

Se non cambieremo presto il paradigma di lettura della realtà economica e sociale che ci circonda, infatti, continuare ad auspicare un cambio di marcia nell’economia equivarrà a «dare il concio alle colonne».

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